tratto dal libro Il buddismo mahāyāna di M.Y.Marassi, edizioni Marietti

* A scuola di religione

Non penso che nelle scuole si possa insegnare la religione in quanto tale, anzi penso che neppure bisognerebbe tentare di farlo. Mantengo da tempo questa opinione per due motivi, uno legato al fatto che – almeno sino alle prime classi del liceo – a mio parere i ragazzi, in generale, sono troppo giovani per ricevere una corretta educazione religiosa. Guardando alle religioni dal punto di vista della tradizione storica, una conferma a questa convinzione personale la possiamo trovare nell’islam, nel cristianesimo e nel buddismo nell’atteggiamento dei fondatori, che si sono esplicitamente rivolti a un discepolato adulto.

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Anche la frase di Gesù, riportata in Mt 19,14, «lasciate che i bambini vengano a me» è essenzialmente indirizzata agli adulti. È infatti palese che sono parole atte a sottolineare la sua dimestichezza e armonia con l’innocenza e la freschezza, che in quel passo sono simboleggiate dai fanciulli, non sono un’esortazione affinché vengano invitati i bambini a entrare tra coloro che lo seguono.L’infanzia e l’adolescenza sono, sarebbe opportuno che fossero, età protette, ovvero età nelle quali abbiamo l’incubazione del germoglio che, una volta incontrato il terreno aperto della vita, si potrà sviluppare e dare origine a uno spirito religioso. Se anticipiamo questa fase, cioè quella del rigoglio, rischiamo di bruciare la pianticella.

Con i giovani, a mio parere, il modo più proficuo di veicolare un messaggio religioso è quello della prassi. Ovvero del comportamento: costituire un possibile esempio di come si può essere adulti. E per fare questo non occorre essere insegnanti di religione.

Il secondo motivo, per così dire di tipo logico, risiede proprio nel quid, nella sostanza della religione. La quale, in ogni tradizione e cultura, è sempre stata una proposta, un’indicazione dinamica a chi pone una domanda.

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E quella proposta è tanto più efficace e risolutiva quanto più la domanda che la genera è forte e urgente. Se offriamo del cibo a chi è sazio, oppure una medicina a chi è sano o pensa di esserlo, rischiamo che la medicina venga svalutata come tutto ciò che è inutile, e quando davvero il male si manifesterà, o verrà accettato come tale, rischieremo di rifiutare il buon rimedio perché è già stato scartato e catalogato come inutile.In altre parole sto evidenziando dal punto di vista del buddismo ciò che è esposto nel capitolo settimo di Matteo, dedicato a come possiamo e dobbiamo fare per cercare la salvezza: bussate e vi sarà aperto. Quel “bussare” è densissimo di significato, contiene tutti gli sforzi e le difficoltà di una via, di un cammino religioso. È la condizione indispensabile affinché qualsiasi nutrimento religioso possa attecchire. Senza il bussare non vi è il chiedere che inclina il piano del rapporto o svuota una parte, e consente il passaggio: chi chiede si pone nella condizione del mendicante e perciò si china o, quanto meno, si dispone all’ascolto, ovvero si svuota.

Se occorre che si instauri un rapporto basato su quel bussare e quell’aprire affinché si possa realmente parlare di insegnamento religioso, allora è indispensabile un percorso di ricerca personale basato su uno o più rapporti in qualche modo speciali, attivati dal bussare, dal chiedere che svuota.

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Per questo sostengo che nella scuola la religione può essere insegnata, ma solo come materia di studio, in senso antropologico, sociologico, politico, storico. Non come “religione”, ossia non come via di salvezza perché questa presuppone una tensione o richiesta speciale da parte del discente e una qualità di rapporto che a scuola di solito non è possibile instaurare.Presumo che chi frequenta le mie lezioni non lo faccia per essere convertito o per diventare mio discepolo, ma per approfondire una conoscenza in vista di un uso nel quale io non posso intervenire perché il rapporto tra me e gli studenti si interrompe nel momento in cui escono dall’aula. O nel momento in cui chiudete il libro che state leggendo: queste parole non evaporano improvvisamente, il senso che esse veicolano permane e si integra con tutte le cose che già sapete, ma l’uso che ne fate dipende unicamente da voi.

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Se tra me e voi ci fosse un rapporto di tipo religioso, l’uso che voi farete delle mie istruzioni mi riguarderebbe ancor più della loro somministrazione: il rapporto proseguirebbe oltre la soglia dell’aula o dopo la fine di questo libro. I miei obiettivi sarebbero volti al vostro effettivo risveglio spirituale, alla sua coltivazione e non, per esempio, calibrati in vista di un esame nel quale non mi sarà concesso badare al vostro progresso interiore ma alla vostra ritenzione e comprensione intellettuale degli argomenti; ovvero a “quanto” avete imparato e sarete in grado di ripetere.

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