Aprile 2007


GALILEO AND HIS DADA DEFENDER

If any subject deserves more than others to be dealt with in this column called “Unlikely”, it probably is Tommaso Campanella’s book “In Defence of Galileo”, written in 1616 in order to persuade the Vatican of the fact that Galileo Galilei’s ideas about astronomy (i.e. the Copernican standpoint, according to which the Sun is in the centre of the universe and the Earth spins around it) was not against the teachings in the Bible, as well as in the Catholic tradition.

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A very noble aim, all the more so as Campanella did not share many of Galileo’s views, and in spite of this he was the only one who did attempt such a defence. It did not succeed.

Not only because the Vatican judges – the well and sadly known Inquisition – had to play their role as “the villains”, but also because…

in italiano… read more…

Sul nuovo numero de La Stella del Mattino, la rivista trimestrale della Comunità, è stata pubblicata la traduzione di un intervista a Watanabe Koho roshi. Watanabe roshi è stato abate di Antaiji

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nel periodo in cui il monastero rinunciò alla comodità ed allo stress di una vita di città per trasferirsi tra le montagne. Il monastero venne ricostruito in un luogo così impervio da essere irraggiungibile per molti mesi all’anno a causa delle tempeste di neve, che praticamente ne sigillano l’ingresso per lunghi periodi. L’idea di trasferirsi, la scelta del luogo, la realizzazione di questo progetto furono innovazioni introdotte dal roshi e per le quali è, ancora oggi, criticato dall’establishment della chiesa buddista zen giapponese.

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Gli undici anni in cui Watanabe roshi ed il gruppo da lui diretto vissero su quelle montagne sono stati un periodo unico, forse irripetibile, di tutta la storia del buddismo zen. Si sono poste le basi per una possibilità religiosa per il mondo dell’era della modernità.

A seguire un brano dell’intervista che riprende un argomento trattato ultimamente su queste pagine: la pratica ed il rapporto con gli altri.

D: C’è una differenza se la ricerca interiore viene fatta da soli o in gruppo?

R: La ricerca interiore non è mai disgiunta dall’altro, è sì un percorso individuale ma implica sempre gli altri. Nella tradizione shintoista, ad esempio, si fa una volta all’anno un pellegrinaggio in ottantotto luoghi diversi; di questo pellegrinaggio si dice che si fa da soli, ma contemporaneamente in due. L’individualismo è un prodotto tipico della società occidentale: se interpreto in quest’ottica la frase di S. Paolo che dice “io sono libero da tutti”, sarò portato a pensare che sia un invito all’individualismo. Nel buddhismo, invece, l’obiettivo è di liberarsi anche da quest’io, per ritrovare un unione con il tutto. Personalmente non invito ad affidarsi a qualcun altro o a farne del tutto a meno, si tratta invece di capire che cosa uno vuole imparare dalla vita e da lì cercare le persone e le cose che possono aiutarci a raggiungere l’obiettivo. Non è questione di guidare né di essere guidati, nel buddhismo non c’è né maestro e né discepolo, ma si tratta di pensare insieme, anche se è molto comodo lasciare che sia qualcun altro a indicare la via.
Leggi l’intera intervista

(Qui alcune immagini di Antaiji)

There is a new kid in town… recita una vecchia canzone di Bruce Springsteen, riprendendo un modo di dire popolare che annuncia una novità.
Il nuovo in questione è un argomento -che abbiamo cominciato a trattare qui– di carattere particolarmente interessante per chi pratichi zazen e non viva all’interno di un monastero o di un luogo adibito anche, o solo, a quello scopo. E’ lecito sedersi da soli? E’ produttivo -almeno per la propria vita interiore-? E’ un’espressione di autentica religiosità -una volta imparato a sedersi in un luogo fondato e curato necessariamente da altri- ritirarsi a pratica privata facendosi vivi con il gruppo quando aggrada o solo per i sesshin, i ritiri, senza collaborare alla sopravvivenza dei luoghi che ci hanno “partoriti”? Sino a che punto le difficoltà contingenti possono fare da schermo, da giustificazione al disimpegno pubblico?

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Ha ancora senso il dettato del Sutra di Vimalakirti che parla del “sacrificio del dono della legge” specificando che è “quello grazie al quale gli esseri maturano senza principio né fine”? Prendendo alla lettera questo sutra, non vi è buddismo senza servizio, la vita religiosa senza l’offerta della pratica non è completa, non si può realizzare. E poi, la delega a “loro che tanto lo fanno volentieri/di mestiere/per ruolo” non è una fabbrica di prelati, e magari della specie meno auspicabile? Vogliamo che i luoghi della pratica vengano gestiti solo dai professionisti della religione?
D’altronde non c’è dubbio che, specie in Cina, in Giappone, l’esortazione a lasciare tutto, a isolarsi e dedicarsi solo alla pratica è presente in molti testi. Ma è di questo che stiamo parlando? Sedersi da soli e non aggregarsi/non aggregare, sono sinonimi?
Ai due articoli iniziali, hanno cominciato ad aggiungersi commenti.

Budda-daismo meneghino

Che cosa c’è nelle brume della Lombardia, che incanta lo sguardo e lo rende leggero? Sarà che il sottile velo di nebbia, per antitesi, suggerisce l’idea che la vera nebbia è ciò che chiamiamo “realtà”.

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Sarà che la pianura, non interrotta da colline o monti, sembra il simbolo di un universo i cui confini si sperdono chissà dove. Allora l’animo del longobardo, tantopiù se artista, non si sente sopraffatto dalla malinconia, anzi impara a danzare lieve lieve nell’aria frizzante, padrone delle cose perché libero, e tanto più libero quanto più sa sorridere di sé.

Forse è questo il filo tenue che unisce le vite e le opere di autori che apparirebbero così lontani nel tempo o negli interessi. Tutti milanesi per nascita o per adozione, ognuno creatore di un suo segno inconfondibile. Si chiamano Giuseppe Arcimboldo, Achille Campanile, Dino Buzzati.

Arcimboldo è quello che dipingeva teste umane componendole di frutta fiori animali oggetti. È stato ripescato dai surrealisti come antesignano (a nostro avviso, erroneamente) della pittura dell’inconscio. È quindi diventato famoso (ma erroneamente, a nostro avviso) come un tipo bislacco che faceva cose buffe per un decadente senso del divertimento. Eppure ci sarà stato un motivo, a parte scacciare la noia, per cui l’Imperatore lo copriva d’oro.

(altro…)

Per par condicio

Alcuni lettori -per primo DR nel suo commento– mi hanno fatto notare che, specialmente nelle manifestazioni esagerate, pompose e ridondanti, tutto il mondo è paese. Non è giusto allora mettere alla berlina un versante lasciandone un altro nascosto. Ho cercato tra le fotografie che documentano i momenti clou della mia carriera formale e l’unica immagine che ho trovato adatta a rappresentare gli eccessi della nostra “parrocchia” è quella che vi sottopongo. Se volete: commentate.

mym

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Il broccato
E se il più fine broccato fosse solo l’ombra,
sarebbe meno della carta straccia.
C’è una porta da attraversare.
C’è chi ottiene l’illuminazione con un solo colpo di
bastone
altri nemmeno con tutto l’oro del mondo.
Chi vede il grande tesoro della luna
Per lui nemmeno gli scrigni di un imperatore
potranno eguagliarne lo splendore.
Se tenti di disegnarla sulla carta più pregiata
Non ne rendi minimamente l’idea
Chi invece non ha mai visto la luna
Adorerà quell’immagine come un segno divino.

La porta più finemente lavorata chiude la vista del
cielo.
SC

Forse sono io che, a forza di ridurre le frequentazioni, le occasioni di socialità non so più guardare a quello e a quelli che mi circondano senza il distacco di chi non c’entra nulla. Forse, così, ho perduto -almeno in parte- la capacità di riconoscere i fratelli, le persone semplici e sincere anche quando la vita le costringe ad un mestiere difficile.

Tutto è nato dal fatto che su un quotidiano (1) vi era una fotografia che mi ha lasciato di stucco. Ve la ripropongo perché ritengo sia opportuno osservarla con attenzione.

E mi sono chiesto: “Ma cosa staranno facendo o pensando di fare così … vestiti? Addobbati?” e mi pareva una cosa incredibile che qualcuno -seriamente, non per burla- potesse portare addosso tutto quel broccato, quell’oro, in un ambiente dalle volte così alte piene di statue e di lampade dorate, così conciato (passatemi il termine, non ne trovo altri) che altri due uomini, adulti, apparentemente liberi, vestiti in tinta col primo, erano lì, come inservienti addetti a sostenere un paio di metri ciascuno di stoffa porpora e oro perché le falde del mantello non cadessero a terra… Ero così meravigliato che chiamai mia moglie e mia figlia per mostrare la mia scoperta. Ma non ottenni pressoché alcun risultato. Completamente normale che quegli uomini fossero così addobbati. Anzi, mia figlia mi guardò con quell’aria: “Non comincerà ad essere un po’ svanito, il babbo? Lo sa anche lui come vanno le cose…”.

Ma come vanno le cose?

mym

1) La Repubblica del 3 Aprile, la foto era pubblicata a pagina 10.

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