Dell’onanismo religioso

All’epoca che fu, quando la religione era una cosa troppo seria per farla gestire dai preti, vi erano i cosiddetti “solitari”. Avevano alle spalle solide tradizioni, almeno un mille anni di storia durante la quale da quelle parti -foreste indiane e dintorni- molti si aggiravano (ed ancor lo fanno) seminudi, trascorrendo lunghi periodi in isolamento sostenuti da qualche devoto contadino. Nei periodi in cui la Comunità si riuniva, per necessità e tradizione due volte l’anno durante il periodo delle piogge, raggiungevano il sito in cui il gruppo si ritirava e trascorrevano assieme il periodo. Che però non era per nulla breve, complessivamente tra i quattro ed i sei mesi nell’arco dell’anno. Ecco allora che per quella via era possibile conciliare forme di romitaggio o difficoltà di frequentazione con periodi comunitari intensi: il periodo in cui tutti si ritiravano al riparo della pioggia, era quello che noi oggi agiamo come sesshin, corroborato certamente da studio e istruzioni. Il tempo passò, nuove terre e nuovi cieli ospitarono la Comunità oramai vastamente espansa, soprattutto nuove idee affermarono sé stesse come più centrali al messaggio del fondatore. Fu così che i “solitari”, assieme ad un altro gruppetto amante della marginalità detto degli “uditori”, furono relegati tra i “minori” anzi, tra gli “inferiori”. Certo che -per ascoltare il principe Nagarjuna che di mondo se ne intendeva- se tra mondo e Nirvana, non c’è la più piccola differenza, allora è lì che la partita va giocata, senza scuse.

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Il tempo è passato, ora le città, le strade, le ferrovie coprono la terra, volendo si può arrivare quasi dappertutto in poco tempo. Ciascuno di noi frequenta giornalmente un numero di persone pari a quelle che incontrava in un anno un nostro avo, o in tutta la vita un “solitario”. Però è difficile, quasi come un tempo, andare al dojo, riunirsi con gli altri, occuparsi dell’affitto o dello stato dei cuscini, decidere le date e gli orari e, soprattutto frequentare regolarmente mantenendo in vita un luogo. Mentre molti, a casa propria si siedono, si sedicchiano?, hanno tutto ciò che serve e se interrogati sui perché dello scarso impegno comunitario concludono dicendo: siedo a casa mia, regolarmente. Secondo me (seduto da solo per tredici anni, a parte i sesshin, che però non organizzavo io) indubbiamente sedersi da soli ha una serie di vantaggi e di facilità che rendono attraente tale stato. Tuttavia è sterile, privo di futuro per gli altri e privo di reale crescita per noi. Non è buddismo, è raccogliere quello che altri hanno seminato, senza curarsi del prossimo raccolto, assomiglia più a un furto che a una pratica religiosa.

mym

8 Responses to “Dell’onanismo religioso”

  1. Paolo Sacchi Says:

    Onanismo solitario o di gruppo?

    Ringrazio Yushin per aver accettato di aprire questo piccolo dibattito e raccolgo la sua esortazione a non lasciarlo morire senza qualche ulteriore arricchimento.

    Sono effettivamente un po’ stupito dalla sua presa di posizione così netta, almeno nelle conclusioni; cerco quindi di capire perché ritenga opportuno sbilanciarsi così.
    La prima cosa che mi salta agli occhi è che, dato il ruolo che svolge, Yushin non poteva dire molto di più: dopo aver onestamente confessato il ‘peccato’ (seduto da solo 13 anni…) tenta di balzare al di là della contraddizione assestandosi in una posizione ‘politicamente corretta’. E certamente il consiglio che se ne ricava, cioè che è meglio soprassedere allo sedersi da soli in quanto pratica sterile, è un consiglio di buon senso e di prudenza; come missionario di una scuola (o tradizione o chiesa che dir si voglia) quale lo Soto Shu, effettivamente mym non poteva che prenderla da quel verso. Un buon padre dà sempre consigli sensati e di prudenza. Corretti. E pensa alla sua famiglia.

    1. Già, è proprio il politically correct, in questo caso meglio il ‘religiosamente corretto’, che per cominciare mi lascia perplesso, poiché in nome di quella sorta di ideologia oggi assolutamente dominante, controllata ed alimentata a sua volta dei ‘media’, che mi spingerei provocatoriamente a chiamare ‘idolatria del sociale’, si rischia di banalizzare ogni argomento senza penetrarne più di tanto la superficie.
      Pensiamo – ad esempio – alla parola ‘interdipendenza’, sempre più utilizzata come traduzione del termine pratityasamutpada, che è stato a lungo tradotto in italiano con ‘co-produzione condizionata’ o ‘produzione condizionata’ o ‘originazione dipendente’: perchè si preferisce oggi questo brutto termine (interdipendenza)? La mia preoccupazione, anche considerando i contesti nei quali viene per lo più utilizzato e l’età generazionale di coloro che oggi pensano e scrivono sull’argomento (pur senza scomodare il ’68), è che con l’uso di questo termine si insinui di fatto, non dico coscientemente o volutamente, una valenza ‘sociale’ all’idea che pratityasamutpada vuole esprimere. Si colora così, inconsciamente e sottilmente, di tinte formente sociali/sociologiche e quindi umano-centriche la chiave di volta dell’impianto dottrinale buddista (la produzione condizionata); la si ontologicizza perdendo di vista il tratto distintivo di pratityasamutpada che è sostanzialmente ‘vacuità’ (‘tale la vacuità, tale per noi la produzione condizionata’, mi pare reciti ripetutamente il buon Nagarjuna): qualcosa dunque che va ben al di là di opposizioni dialettiche/mentali quali il sociale-non sociale, uguaglianza-diseguaglianza, diritto-non diritto.
      Lasciarsi prendere la mano ed accettare acriticamente la prevalenza della ‘dottrina sociale’ è una tentazione inevitabile e forse irresistibile, un percorso che un po’ tutte le religioni sono prima o poi indotte a fare, trasformandosi così in chiese e mescolandosi e contrapponendosi alla politica o alle scienze, in una pericolosa commistione di interessi e di valori che, se non si sta in campana, può generare orribili mostri. La storia di tutte le chiese è lì a testimoniare questo pericolo.

    2. Ed un cenno, a questo punto, credo debba essere fatto riguardo l’uso del termine ‘religione’, termine strategico che come il prezzemolo è diventato buono per condire ogni tipo di minestra e per adeguarla ad ogni tipo di palato, come se una cosa solo chiamandola religione assumesse quella valenza di importanza e di inattaccabilità, divenisse uno scudo protettivo che ci mette al riparo da dubbi ed incertezze e, soprattutto, dagli ‘altri’. Nel corso del tempo mi è capitato di veder ascrive a radici etimologiche diverse e anche non proprio in sintonia tra loro, il termine religione. Ma lascerei questo tema agli appassionati, poiché mi pare molto più rilevante l’uso corrente che si fa della parola viva. Questo spazia da risvolti cultuali (di credenza, credo, confessione) riferiti in linea di massima ad un impianto dottrinale che prevede una ‘spiegazione’ della realtà di origine trascendente e ad una serie di regole comportamentali cui attenersi, spiegazione e regole di cui nessuno si assume la responsabilità perché derivanti da una qualche ‘rivelazione’ di natura non umana; a risvolti mistici (devozione, adorazione; di qualcuno, per qualcosa..) per lo più sostenuti da impianti dottrinali dogmatici o confessionali; fino ai risvolti socio-politici propri almeno di tutte le forme di integralismo. E’ un contenitore così generoso che può contenere praticamente qualunque cosa: dal misticismo al fondamentalismo o all’integralismo, dall’anacoretismo al ritualismo e così via.
      A quale scopo introdurre questa parola come chiave di lettura al nostro tema? E’ il Buddismo una religione? Lo è lo Zen? E lo zazen, shikantaza, è una religione?
      Lo so che è un tema dibattuto, ma mi pare anche un tema da superare in fretta perché ostacola la nostra ricerca. Ho sottomano l’ed. Ubaldini della < ‘Realtà dello zazen’ di Uchiyama Roshi: a pag 78 il tema è sviscerato in modo ampio e (per me) esaustivo. Lo zazen non è una religione nel senso di una setta o una professione di fede e neppure in quanto sottomissione alla autorità di un Dio. Se con la parola religione invece intendiamo ‘la dottrina del comportamento più intimo di fronte alla vita’, allora il Buddismo (lo zen) è religione ‘ nel senso più puro del termine’.
      Mi fermo qui; tanto mi basta.
      Ma allora, se uno si siede da solo con questo atteggiamento, orientato a vivere il sé che vive pienamente la vita del sé e null’altro, allora non è una cosa seria? Non è abbastanza ‘religioso’?

    3. Dicevo all’inizio che quello di mym è sicuramente un buon consiglio. E’ evidente che sia meglio praticare in compagnia e, potendo, sotto la guida di un insegnante o comunque di chi è più esperto di noi. Non ho dubbi, non dobbiamo avere dubbi al proposito. E’ un po’ come le massime alla Catalano, di televisiva memoria: è meglio star bene che male, è meglio una moglie bella e ricca…e via sorridendo. Ma non è questo il punto.
      Il punto è che non è una impostazione corretta (dal punto di vista dell’analisi, evitiamo facili ironie…) quella di porre il ‘sedersi da soli’ versus il ‘sedersi in compagnia’. Come se una cosa escludesse l’altra. Non si tratta di un aut aut. Se di questo si trattasse sarebbe, per me, un tema privo di ogni interesse, una contrapposizione sensa senso.
      No; la domanda che dobbiamo farci qui, per non truccare le carte, è: “quando si è soli è bene sedersi da soli o no? Quando si è in compagnia è bene sedersi in compagnia o no?” E poi, così come studiamo nei dettagli i modi e l’atteggiameto migliore per sedersi in compagnia, possiamo chiederci anche: “Quale è l’approccio migliore alla pratica seduta da soli?”
      Ma potremmo parlare della recitazione del Nembutsu, o della presenza mentale nelle attività quotidiane o di qualunque altra cosa: per quale motivo, quando siamo da soli, dovremmo fare le cose male o non farle affatto, svilire le cose che facciamo e sentirci per di più egoisti, e invece in compagnia dare il meglio di noi stessi?
      L’unico motivo ostativo, che renda ragione alla posizione di Yushin, potrebbe essere quando/se noi appositamente, intimamente, ricerchiamo la condizione di ‘soli’ contro una visione plurale della vita; allora siamo particolarmente malati di orgoglio, di misoginia o – come vuole mym – troppo amanti del comodo ed anche un po’ troppo pigri. Ma anche qui ci sarebbe da discutere…

    4. Bisogna anche sgomberare la mente da una altra ambiguità, determinata dall’uso della parola ‘soli’.
      In realtà chi pratica da solo non necessariamente è un misogino o un pratyekabudda che si è arroccato in una caverna sul M. Bianco. Anzi, quasi mai è così.
      Solitamente si trova in questa necessità, di sedersi da solo, chi vive in famiglia ed ha un lavoro, magari abita fuori città o si muove continuamente per affari: chi è, quindi, proprio all’interno del sociale, nel cuore profondo della ‘condivisione’. Pensiamo alla condizione con figli piccoli o con genitori anziani e via di seguito. Di solito – ma non ho fatto una indagine al proposito – si tratta di persone che comunque frequentano periodicamente un centro di pratica, che hanno forse dei referenti o degli insegnanti ‘qualificati’ i quali, per varie ragioni, sono raggiungibili con difficoltà; persone che non ignorano il valore dei 3 gioielli e che rispettano ed onorano e frequentano la sangha con modi e tempi propri, non correlati a formali rituali ‘di esercizio’. Almeno, questo è ciò che spero.
      Lo zazen è una pratica per la vita (intesa come buddha-dharma, per dirla con Uchiyama, al di là della dicotomia tra illusione ed illuminazione); voler fare della vita una pratica per lo zazen, lasciando immutate le condizioni, è un rischio e può diventare un errore fatale. Chiunque può fare la prova.
      Chi vuole impostare la propria vita in funzione della pratica ‘religiosa’ e null’altro, se ha buon senso non rimane in una condizione laica, evita di costruirsi una famiglia da sostentare con un lavoro, si fa monaco e si reca dove si deve recare per il tempo che verrà stabilito; non tiene il piede in due staffe. Così è sempre stato, perché questa è la condizione migliore per fare una pratica che sia ad un tempo mezzo e fine.
      Confondere i due piani significa fare tutto male, mandare a carte quarantotto famiglia, lavoro e ambiente sociale di riferimento; non è questa la lettura raccomandabile del passo evangelico in cui Gesù esorta ad odiare i propri figli ed i propri parenti e amici per guadagnare il regno dei cieli… Oppure significa disamorarsi presto della pratica.
      Naturalmente il mio è un ragionamento da ‘laico’, da laico che non si augura di vedere il mondo trasformato in una immensa teocrazia ma piuttosto si augura che la luce del ‘fondare la fede sul Sé’ permei questo mondo così come è, con le strategie che il Sé ritiene più opportune, anziché seguendo modelli precostituiti da altri uomini, in altri tempi e luoghi, che calzano alle singole realtà spesso come scarpe troppo strette.

    5. Infine, il sedersi da soli è pratica che ha una lunga tradizione, anche di tutto rispetto.
      A cominciare dal fondatore Sakyamuni, ad altri illustrissimi personaggi come Bodidharma o Milarepa, per finire, attraverso molti altri, con Uchiyama roshi che narra della sua pratica da solo (vedi ad esempio quando narra di come lui ed il suo confratello Sodo-san, in Antaiji, sedessero in stanze separate; commento al Bendowa di Dogen/ trad. di S. Okumura Tokyo 1993/ pag 142 ed altrove, ma siccome non trovo più le pagine e per ora non posso citarle…; tra l’altro, rispondendo ad una domanda sul perchè, anzichè operare nella società, siede solo in un posto così isolato U.R. risponde: “Society always moves without direction. Within such a society it is the greatest contribution to sit immovably by oneself”. Siamo ai margini del nostro tema, ma non mi pare uno spunto cos’ irrilevante), fino ai succitati 13 anni di Yushin.
      Ho buoni motivi di ritenere che nei paesi dove la cultura buddista è radicata da tempo, nelle famiglie o in altre situazioni, ci si sieda in zazen tranquillamente, anche da soli: cosa che il cinema (ad esempio) talvolta ci permette di osservare.
      E questo ci conduce ad una ulteriore, interessante considerazione, che giustifica e riporta nella sua giusta luce la correttezza e la prudenza della risposta di Yushin: siamo pronti, noi occidentali, noi italiani? La nostra pratica è sufficientemente matura da balzare al di là di questi dilemmi che possono sembrare un po’ assurdi ed artefatti ma che tali, a mio modesto avviso, non sono?
      Saremo sufficientemente maturi per sederci lasciando che il sé sia semplicemente il sé, per fare della pratica non un mezzo e neppure un fine o un rifugio al nostro proprio ego, ma una condizione piena, che possa anche rinvigorire la nostra vita e quella di chi ci sta vicino ed indirettamente anche quella di chi vicino non è? Inclusi piante, animali, aria e via discorrendo? In compagnia quando le circostanze sono ‘compagnia’, da soli quando le circostanze sono ‘soli’.
      Ma poi: quando siamo realmente soli?

    Che la nostra ricerca e il nostro sforzo possano essere di beneficio a tutti gli esseri.

    PS

  2. mym Says:

    Oggi, lapidario lapido: la frase “Che la nostra ricerca e il nostro sforzo possano essere di beneficio a tutti gli esseri” senza sedersi in compagnia, con tutti gli annessi e connessi che questo comporta, rischia di sembrare un po’… vuotarella.
    Ciao

    mym

    PS: in “Onanismo religioso” ho aggiunto una precisazione, all’ultima riga.

  3. Paolo Sacchi Says:

    Che buffo: perchè mai uno non dovrebbe sedersi in compagnia?
    Comunque anche qui si potrebbe aprire un bel capitoletto.
    Ma, come ti ho scritto, perchè il dibattito non inaridisca ci vorrebbe qualcuno che allarghi il gioco sulle fasce, che so…. Pirlo!
    ciao
    p

  4. Dario Says:

    Ribaltando il discorso: secondo Pascal, l’origine di tutto il MALE del mondo sta nel fatto che NON riusciamo a stare seduti da soli in una stanza.
    Vado bene come Pirl…o?

    DR
  5. roccia Says:

    Intanto devo pubblicamente ringraziare Licia per la sua presenza nella Comunità che fa rendere il luogo “vivo”. Sono d’accordo con Y. pratica è anche cura del luogo,
    la mia cura purtroppo la riservo da qualche anno nel venire in Agosto per circa una settimana è un pò poco, ma finora è quello che posso fare e penso che lo farò anche quest’anno sperando nella disponibilità di Jiso per fare qualche ora di “studio”, ho notato che le sesshin sono state inframezzate dal lavoro, anche se preferirei un ritiro intensivo, capisco che solo così si può avere la presenza delle persone per svolgere le mansioni necessarie. Penso che lo zen deve entrare nella vita anche avendo a cuore e nel cuore il luogo. Licia ha bisogno di un aiuto nell’orto, si accettano volontari.

    Silvano

  6. Paolo Sacchi Says:

    Approfitto della pausa di silenzio sul blog per dire ancora la mia; scusate.
    Ho molto apprezzato l’introduzione postuma al tema, che Yushin ha messo in home page col titolo Zazen? Da soli!, e da questo vorrei trarre spunto per qualche altra riflessione.
    Il “sacrificio del dono della legge” di Vimalakirti, a mio modesto avviso, non è da leggersi come obbligo morale, neppure è da misurare con una qualche scala di meriti né tantomeno va soppesato come causa dell’effetto ‘uomo della via’.
    Quel sacrificio non può essere cercato, sennò è viziato da calcolo, da intenzione: non può essere rifiutato o evitato, sennò si contrappone una volontà propria al corso delle cose e siamo daccapo. In realtà non è un sacrificio nel significato comune della parola; se non fosse un modo di parlare un po’ arcaico dovremmo dire che è un non-sacrificio.
    Se può, può essere solo come ‘agio’ del presente che realizza il presente: “grazie al quale gli esseri maturano senza principio né fine”.
    Per noi uomini comuni, questa parrebbe una buona rotta da seguire. Con un po’ di prudenza.
    O mi sono perso qualcosa?
    Cosa significa poi, ciò, in termini concreti? Ad esempio che ognuno segua innanzi tutto la sua propria ‘vocazione’ naturale, il religioso come religioso, il laico come laico (Vimalakirti docet! se non ricordo male infatti, proprio il sutra di Vimalakirti segna la legittimazione storica della condizione di ‘praticante laico’); che ciascuno misuri – se proprio vuole misurare – il suo impegno con la scala delle proprie possibilità e potenzialità, delle circostanze personali, sociali ed ambientali in cui si trova a vivere. Dei propri talenti e dei propri limiti.
    E’ vitale, certo, tenere in alta considerazione il parere, il giudizio e l’esempio di altri, soprattutto quando giungono da ambiti ‘qualificati’: ma poi facciamo comunque, necessariamente, le nostre scelte con la nostra propria testa, assumendocene la responsabilità (a chi altri potremmo addebitarla?) evitando nei limiti del possibile di scimmiottare, divenire succubi o di farci plagiare o indottrinare più di tanto. Rischiando. Sbagliando. Cadendo anche e cercando la forza di rialzarci ogni volta.
    E’ “sacrificio del dono della legge”, a mio avviso, anche un piccolo atto di vita quotidiana, quando riusciamo a mettere da parte per un attimo il nostro io ed agiamo nel presente che si realizza proprio in quel piccolo atto: lo è lo stare con persone che neppure conoscono il buddismo, donare la nostra attenzione ed ascoltare, anche perché nessuno è nato ‘imparato’ e tutti, proprio tutti, hanno qualcosa da insegnarci. Lo è anche donarsi in toto ad una chiesa, per chi sente questa scelta come sua , come lo è donarsi ad una famiglia, a una comunità religiosa o ad altro ambito laico, oppure ad attività non cercate necessariamente in funzione del nostro esclusivo profitto o vantaggio. Pulire il sedere ad un vecchio parente malato o dedicarsi ad attività di volontariato verso terzi. E, perché no?, anche sedersi da soli anziché andare in discoteca o a andare a cercare del (questo sì, solitario) sesso a pagamento (siamo su questa terra). O scrivere su questo blog senza voler vincere, e leggervi senza temere di perdere.
    C’è già da troppe parti un costante tentativo di omologare lo standard dei comportamenti corretti: mi asterrei dal creare ‘modelli’ con cui misurare il ‘sacrificio’.
    Perché dunque catalogare forme non standardizzate come ‘disimpegno’? Mi pare, scusa mym, un atteggiamento un po’ sprezzante. Perché – ad esempio – partire dal presupposto che dietro una pratica da soli ci siano prevalentemente arroganza, orgoglio e sovrastima di sè, e non invece – che so – difficoltà, paure, disabilità, insufficienze o necessità di altro genere? (Non tanto diversamente che nella pratica collettiva, peraltro. Siamo comunque un mix di tutte quelle cose.) Il quale interrogativo consiglierebbe forse un ascolto più attento, piuttosto che comandamenti o richiami all’ordine.
    Mi rendo conto che predicare bene è facile, quasi quanto razzolare male: è la mia vita, è la nostra vita. Non possiamo fare che errori, temo: ma l’errore peggiore mi sembra ‘giudicare’ gli errori altrui.

    Un’ultima precisazione: non intendo minimamente millantare una qualche presunta superiorità del sedersi da soli rispetto alla forma collettiva o comunitaria, tutt’altro. Non nutro e non insinuo nessun fascino particolare nello stare soli. Non ci trovo nulla di eroico o di vantaggioso. Nè nego che makyò (forse la scrittura è errata, intendevo riferirmi alle vivide illusioni/allucinazioni che si presentano talvolta durante la pratica e che a volte scambiamo per realtà) stile eremita-samurai-non-ho-bisogno-di-nessuno possano più facilmente tentarci, stando soli. Fa parte del rischio. Per questo non è consigliabile così, senza riserve. La pratica da soli rimane in qualche modo un ripiego dettato dalle circostanze, ad esempio come integrazione di una pratica collettiva quando non è possibile (qui sì, concordo che non debba diventare un alibi per imbrogliare noi stessi) frequentare regolarmente un gruppo o una comunità o si sente l’esigenza di una maggiore applicazione, oppure in altre circostanze delle quali si possono, volendo, cercare testimonianze presumibilmente non prive di interesse.
    Questo mi sembrava si dovesse evincere chiaramente dal contesto della mia precedente. Temo pertanto di essere stato frainteso, ovvero di essermi espresso male.
    Penso però che, ponderata attentamente e con le dovute cautele, sia una pratica – quella da soli – che non merita nemmeno di essere demonizzata a priori, al di fuori dei contesti in cui viene adottata. C’è situazione e situazione, c’è persona e persona e così via; le generalizzazioni assolutistiche mi lasciano sempre molto, molto perplesso.

    Infine due righe su Pascal: Dario, hai gettato un amo come si deve. Però è abboccando che si supera la contraddizione.
    Confesso di non aver letto Pascal; immagino che avrà (e avrai) ampiamente commentato quella riflessione di grandi potenzialità.

                                         PS
    
  7. Yushin M. Marassi Says:

    L’aspetto normativo non va certamente al primo posto: solo perché se mangio la gallina non avrò più uova, porre la legge salvagalline al primo posto non mi salverà dai mangiagalline. Tuttavia è indispensabile che, se mi occupo di galline, io sappia che una volta che ho fatto l’ultimo arrosto…: fine della storia, per me, per tutti. Perché dico questo? Perché nella mia esperienza (e da quello che leggo nei testi penso si possa dire lo stesso di molti nel passato) appare chiaro che sedersi da soli è di grande comodità, appagante, soddisfacente e privo di inconvenienti (un bell’arrosto già pronto, cotto come piace a noi) e contiene in sé stesso l’antidoto affinché ogni diversa inclinazione si spenga: chi non conosce la radicalità con cui in un pomeriggio di zazen scompare tutto quello che al mattino ci pareva doveroso?
    Io penso che il sacrificio di cui si parla nel Vimalakirti non sia da interpretare troppo largheggiando di senso. Certamente in Estremo Oriente l’attenzione a mantenere sempre attivi i conti del dare e ricevere (ovviamente si va in attivo quando si è dato più di quello che si è ricevuto) fanno sì che certi discorsi solo raramente vengano affrontati e quasi unicamente su un piano accademico: il rubagalline (ho spiegato sopra il senso di “furto”) non è, non sarà mai considerato -da sé o da altri- un legittimato.
    L’idea che mi sta venendo è che allo stesso modo si discuta del tema qui in Occidente, ovvero in modo altrettanto astratto: siccome vanno in paradiso anche i rubagalline, allora perché no? Sì, va bene, ma è come tagliare il ramo sul quale siamo seduti.
    Da un lato. Dall’altro, provare per credere, la rotondità della vita dedicata alla pratica sente l’assenza del sacrificio del dono della legge quando questo ci è negato, non solo quando lo abbiamo rifiutato.

    mym
  8. Anonimym Says:

    È più facile meditare che fare effettivamente qualcosa per gli
    altri. La mia sensazione è che limitarsi a meditare sulla compassione
    equivale a optare per l’opzione passiva. La nostra meditazione dovrebbe
    creare la base per l’azione, per cogliere l’opportunità di fare
    qualcosa.

    Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama

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