Le religioni in Asia per un mondo senza violenza

Siamo qui oggi in occasione dell’annuale incontro internazionale fra i rappresentanti istituzionali di molte organizzazioni laiche e religiose organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, anche per ricordare il 70° anniversario dell’inizio, con l’invasione della Polonia da parte dell’esercito nazista tedesco, della seconda guerra mondiale. Il senso vivo della memoria, soprattutto per le persone religiose, è quello di guardare il passato per vedere il presente e costruire un futuro migliore. Nel ricordo c’è dunque lo strazio per il dolore, i lutti, i delitti inenarrabili di quei tragici anni. Ma anche l’esame rigoroso di quanto la religione che ciascuno di noi qui rappresenta, ha fatto per fiancheggiare e non ha fatto per evitare tutto il male, fisico, morale, psicologico e spirituale che milioni di fratelli umani hanno inflitto gli uni agli altri e hanno subito insieme al mondo intero. Con la coscienza che le colpe di ieri sono in agguato oggi e sempre, e che nessuno è al riparo dal reiterare, in situazioni diverse, gli stessi complici errori. Solo così può aver senso interrogarsi sulla funzione della religione per un mondo di pace.
Ci sono molti modi di intendere la parola religione e di definirne il significato, modi e interpretazioni divergenti, originati da contesti storici, culturali, sociali differenti. Un esempio lampante di questa realtà è il fatto che molti, in Occidente, partendo da una definizione di religione basata sulla sensibilità monoteista, negano alle esperienze spirituali tramandate dai popoli dell’Asia la legittimità a definirsi propriamente “religioni”. Anche all’interno dello stesso contesto culturale e della medesima sensibilità religiosa, ci sono poi profonde differenze nell’interpretazione di cosa sia “religione”: per qualcuno la religione è ispo facto l’istituzione o chiesa che la rappresenta, per altri è un’esperienza interiore che si fa progetto e stile di vita, per altri ancora un riferimento identitario ed educativo di appartenenza collettiva, un insieme di indicazioni e precetti etici e morali, un sistema di simboli per decifrare il mistero della realtà, un baluardo rituale verso il disordine del mondo…
Ma, io credo, ogni persona religiosa sa, anche senza saper spiegare cosa vuol dire religione, come “quella cosa”, la si chiami o no religione, opera nella sua vita. E sa, indipendentemente dal nome e dalla provenienza geografica e culturale della religione cui si ispira, qual è la meta che la religione promette e qual è la via per mantenere la promessa. Parlo da occidentale che si affida al buddismo, la religione che ha trovato in Asia la propria culla, il proprio nutrimento e i propri abiti, e parlo in veste di rappresentante del buddhismo zen di scuola Sōtō: dunque come figlio della tradizione culturale dell’occidente, oggi egemone nel mondo, che per essere religioso ha cercato e trovato asilo in una tradizione spirituale tramandata in oriente. Lo dico insomma come persona per la quale l’incontro fra correnti di pensiero e prassi di vita profondamente diverse è esperienza esistenziale e spirituale, prima che materia di studio e di convegni.
Religione, per me, è la soglia della pace del proprio cuore che è il germe della pace del mondo intero. La pace, inerme, incondizionata, inespugnabile, di cui parla Gesù nel Vangelo quando dice con le parole riportate da Giovanni: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.” (Giov. 14,27). Ho espresso così, con le parole di Gesù, tramandate nella lingua greca che è all’origine del pensiero filosofico occidentale, quello che è il fondamento della religione secondo la visione e la pratica buddhista, la più diffusa delle religioni dell’Asia: la pace non come la dà il mondo.
La pace come la dà il mondo, è la pace che si fonda sulla sicurezza, sulla difesa, sul rafforzamento dell’identità, sul deterrente che impedisce la guerra. E’ la pace che segue e precede le guerre, è il contrario della guerra, pace da difendere parando bellum, pronti alla guerra; è pace armata, condizionata, costantemente a rischio: è pace debole perché basata sulla forza. E’ la pace basata su di un’idea di pace, e come ogni cosa basata su di un’idea ha per forma i contorni e i limiti di quell’idea.
La pace non come la dà il mondo è la pace basata su un pensiero senza fondo, senza forma. E’ la pace del distacco, dell’abbandono di ogni pensiero, è la pratica dell’immobilità del corpo e del tacitamento della mente, che il buddhismo zen chiama zazen. Nell’abbandono incondizionato di ogni pensiero, e certo anche del pensiero della pace, ogni violenza di ogni forma è vanificata. Da quella pace -del cuore, nel cuore di ognuno- soltanto può diffondersi al mondo intero la pace. Altro luogo di pace non c’è. Questa è l’origine e la meta dell’esperienza religiosa, che un’espressione del buddhismo zen definisce in giapponese hikkyōkisho, il luogo del ritorno alla meta – il ritorno al luogo finale.
Ma allora, la domanda viene immediata, come mai le religioni, custodi di quel luogo, hanno nei secoli ed ovunque fomentato, benedetto, nobilitato le più diffuse e sottili violenze, nei confronti sia di singole persone che di gruppi di individui, sia di singole idee che di intere culture, spiritualità e visioni del mondo?
Perché, io credo, pecchiamo di difetto di fede. Abbiamo più fiducia nella pace come la dà il mondo, la pace imposta con la forza, con la diplomazia, con la sconfitta del “nemico” che fede nella pace che scorre nel silenzio del cuore.
Il mondo senza violenza non è un mondo possibile. Pensare che si possa costruire e realizzare, nell’umana realtà, il mondo senza violenza, è un’idea illusoria, o peggio un alibi ipocrita. Nascere è un atto violento, vivere comporta violenza, invecchiare è un processo violento, morire è violenza: questo è il mondo, questo è il nostro mondo. La religione non serve a cambiare il mondo o a realizzare un altro mondo. Serve a portare nel mondo la prova evidente e invisibile che il luogo finale del mondo è il luogo della pace che è oltre la pace. Quel luogo finale è qui, ora e sempre, nel corpo e nello spirito di ciascuno di noi, ogni volta che, con spirito ridesto, abbandoniamo il mondo salvandolo così da se stesso.
La speranza, dice un maestro contemporaneo, non sta nel futuro, sta nell’invisibile. La violenza del mondo, di cui la guerra, ogni guerra è l’espressione collettiva più macroscopica e folle, è la somma di innumerevoli pensieri, parole, atti violenti: ogni singolo atto, parola, pensiero violento contribuisce ad accrescerla e a diffonderla. Sono i mattoni costitutivi della violenza del mondo. La pace del mondo è la somma delle innumerevoli sottrazioni di pensieri, parole, atti che ciascuna persona opera quando abbandona coscientemente ogni pensiero, parola, atto. Quell’abbandono è, istantaneamente, l’azzeramento del mondo. E’ la non aggiunta di alcun altro mattone e, nello stesso tempo, l’annullamento dell’intera muraglia. L’opera invisibile della pace che sottrae è infinita, mentre la violenza che aggiunge per grande che sia è relativa.
Con questa fede nel cuore e questa pratica costante le persone religiose sono operatori di pace e dirigono i loro passi sulla via della pace.

Giuseppe Jisō Forzani
Buddhismo Sōtō Zen
Vice Direttore
Centro Europeo Buddhismo Sōtō Zen
Parigi

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