A margine dell’articolo Il fascino del Buddhismo, di Raimon Panikkar, pubblicato sul numero 22 della rivista Dharma, e qui di seguito riprodotto

Panikkar è un grande conoscitore della cultura religiosa indiana ed è un sacerdote cattolico. Il suo articolo, in forma di conversazione filante vivace e di piacevolissima lettura, è una rivisitazione del buddismo nel suo complesso: prima attraverso la vicenda personale del Buddha, poi tramite l’esperienza/conoscenza della realtà religiosa indiana attuale, fornendo infine una lettura personale di ciò che lui stesso chiama “l’essenza del buddismo”. Occorre ricordare che quella che ci propone è un’immagine del “buddismo visto da un cristiano” quindi in qualche modo eccentrica rispetto alla lettura che i praticanti buddisti danno della loro via religiosa. Tuttavia il rispetto, che sfocia nell’aperta simpatia –proprio in senso etimo- con cui Panikkar si accosta in profondità ad una religione altra da quella secondo la quale ha scelto di percorrere il suo cammino nello spirito, è un insegnamento esemplare per ogni operatore di pace nel dialogo.

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L’articolo che vi proponiamo è uno scritto molto piacevole, a partire dalla biografia di Śākyamuni riproposta in stile originale e veloce, quasi giornalistico, che ripercorre in poche righe –ma senza dimenticare nulla di veramente significativo- gli ottant’anni della vicenda terrena del Buddha. Il punto letterariamente più bello è, forse, dove l’autore narra l’incontro con il monaco buddista indiano, suo amico e rettore della famosa università di Nālānda, ora ricostruita dopo sette secoli di oblio. E proprio in quell’incontro inizia ad apparire quella che definirei la caratteristica non buddista di questo scritto. È certamente vero che essere buddisti (ma non è forse lo stesso per l’essere cristiani?) non significhi iscriversi ad alcun gruppo religioso e neppure apparire appositamente come tali, come pure è indubitabile che la religione buddista sia una componente essenziale della cultura dell’India attuale. È altrettanto vero che una caratteristica dell’insegnamento buddista è proprio quella di penetrare silenzioso e invisibile nelle culture nelle quali si diffonde. Ma questo penetrare è premessa ad un fiorire di nuova vita nella vesti, o nella “carne”, della cultura così penetrata. Che a quel punto è madre di un “nuovo” buddismo che espande le sue forme alla luce del mondo. Lasciar vagamente intendere che l’India, in qualche misura, è silenziosamente ma profondamente buddista, è forse affascinante ma è un travalicare il senso di questo termine. Al punto che in qualche modo giustifica l’assorbimento e la scomparsa del buddismo come acqua versata sul terreno coltivato. Questa è certamente una sua funzione, soprattutto a livello personale, ma la completa invisibilità del buddismo è la sua definitiva scomparsa, assieme –questo è il vero problema- alla possibilità originale di salvezza di cui è latore.

Non so perché, dal momento che il Nuovo Testamento ha pochissimi accenti melodrammatici, i predicatori cattolici amano indulgere in sentimentalismi che smuovono gli ascoltatori e determinano una partecipazione emotiva alle parole che ascoltano. Non penso ciò sia dovuto alla relativa facilità con cui si può ricorrere a tali mezzi; penso piuttosto che lo “smuovere le coscienze” sia un obiettivo tenuto molto in considerazione dai predicatori cristiani, in particolare tra i cattolici, e che lo “smuovere” emotivo/sentimentale sia considerato una buona operazione di edificazione spirituale. Panikkar, seppure con molto garbo, non sfugge a questo luogo comune.
Il buddismo, invece, non è per nulla in questi termini. E questo avviene per vari motivi, dei quali non è facile stabilire l’ordine cronologico, proprio come tra l’uovo e la gallina. In India ed in tutto l’Oriente -e sino ad ora il buddismo è stato quasi unicamente una “questione” orientale- le passioni e i sentimenti esistono come in ogni altro consesso umano, ma sono considerate e quindi maneggiate con grande attenzione, al punto da avere, nella stragrande maggioranza dei casi, dei canali espressivi formali, fuori dalla “sceneggiata spontanea” caratteristica dei Paesi latini. In tutta la cultura buddista desideri, passioni, sentimenti, emozioni -almeno in teoria o come indicazione religiosa- suscitano una soglia di attenzione interiore molto più alta che nella nostra cultura: sono visti alla base stessa della formazione della sofferenza di questo mondo perciò sono trattati con estrema cura.
In particolare quando nel buddismo si parla di compassione, anzi della “grande compassione” citata da Panikkar, si evita in ogni modo il ricorso al sentimentalismo ed alla pietas emotiva, proprio per evitare, come dice Panikkar, di incrementare la «tentazione di fare il bene, la tentazione di convertirsi in un propagandista, in un predicatore […] e di voler salvar il mondo». La “grande compassione” è un problema centrale nel buddismo, tuttavia se ne parla relativamente poco e con grande cautela. Anche perché, in realtà, non occorre darvi alcuna pubblicità peculiare: chi pratica a lungo seriamente, a poco a poco si rende conto dell’imperfezione della sua pratica e della sua vita religiosa. Tra le altre, la più importante manchevolezza che si fa più pressante col passare del tempo, è la constatazione della carenza nel donare. Ma attuare il dono è così difficile che proprio perché quell’attuare non venga frainteso viene espresso sotto traccia.
Soprattutto non è un imperativo etico né appartiene al senso comune: non si tratta del “volemmose bbene” caro anche a papa Giovanni Paolo II; anche il volersi bene ha importanza nella vita di ogni giorno, ma ciò che caratterizza il buddismo secondo la compassione è di grana differente: è parte integrante del “mio” cammino di salvezza l’essere veicolo del cammino del mondo, altrimenti percepisco una vita “imballata”, sterile. E l’operazione è possibile quando sono in grado di considerare “m/io” tutto il mondo. Ovvero nel momento in cui rinuncio al “mio”.
L’affermazione dai toni leggermente eroici di “rinunciare alla mia salvezza personale in favore di tutti gli esseri viventi che ancora forse hanno bisogno del mio aiuto” è del tutto incongrua in ambiente buddista: coltivare il pensiero di “aiutare gli esseri” già di per sé è non essere in grado di aiutare nessuno in alcunché. Non si tratta di fare del volontariato purchessia: la posta in gioco è tale che possono bastare poche parole dette “a fin di bene” a chi si fida di noi per causare a volte irreparabilmente errori e sofferenze a non finire.
Nei sūtra il tema è trattato con estrema cautela; nel Sutra del Diamante troviamo: «Il Bodhisattva che dicesse: ”Io voglio portare le creature al nirvāna”, non potrebbe essere detto un Bodhisattva»(1). E poi: «Ond’è, o Subhūti, che il Bodhisattva grande creatura, poi che ha trasceso tutte le nozioni, deve far nascere in sé il pensiero dell’insuperabile, perfetto risveglio, e non un pensiero appoggiato alle forme, ai suoni, agli odori, ai sapori, ai tangibili e agli oggetti mentali, non un pensiero appoggiato al dharma, non un pensiero appoggiato al non dharma, non un pensiero appoggiato su qualcosa. E perché? Ma perché ciò che è appoggiato è in realtà non appoggiato. E perciò il Tathāgata ha detto: “Da un Bodhisattva non appoggiato può essere dato in dono, non da uno che è appoggiato a forme, suoni, odori, sapori, [oggetti] tangibili e oggetti mentali»(2). Il dono di cui si parla nella citazione precedente è quello che nel Vimalakīrtinirdeśasūtra è detto: «Sacrificio del dono della Legge […] quello grazie al quale gli esseri maturano senza principio né fine»( 3).
Un pensiero non appoggiato è un pensiero privo di attaccamenti, ovvero che non si origina da un desiderio che ci leghi a “forme, suoni, odori, sapori, [oggetti] tangibili e oggetti mentali”. Voler salvare “gli esseri” o voler “far del bene”, per quanto encomiabile in senso comune, non fa parte di questo discorso: è “un pensiero appoggiato”. Ecco perché si parla di superare, trascendere la volontà.
Infine una critica di contenuto. La sovrapposizione tra l’insegnamento di salvezza del Buddha e lo yoga di Patanjāli secondo la “cessazione dei processi della mente” non è adeguato. L’esperienza giornaliera, continuata nella pratica dinamica del “cessare” secondo il buddismo non porta al sostenere che «la cessazione del dolore è la cessazione della corrente mentale» ovvero che la salvezza, o liberazione dal dolore stia in questa stasi, nel black out del pensiero. Se così fosse saremmo in un guaio senza scampo. Sia perché non è possibile, né auspicabile, ottenere stabilmente questa condizione di cessazione, sia perché mirare allo stato di cessazione è rimettere in moto tutto il meccanismo: è volersi appoggiare, sia pure allo stato di cessazione. Una condizione privilegiata che diviene oggetto di ricerca, di desiderio, quindi nuova causa del dolore.
Trascorrere la propria vita adeguandosi alla norma della pratica del “cessare” insegnato dal Buddha porta a dire che è nel continuo, fluido e sempre nuovo lasciare andare (4) che si attua quel processo detto “sentiero che conduce alla cessazione del dolore”.

1) La rivelazione del Buddha, a c. di R. Gnoli, vol. II, p. 90.
2) Ivi, p. 85.
3) Ivi, p. 447.
4) Usuale traduzione del pāli nekkhamma, in sanscrito naişkramya; composto da nih “senza” “libero da” e kram “afferrare” “intraprendere”.

2 Responses to “Note a margine dell’articolo di Pannikar”

  1. marta Says:

    Nulla su cui appoggiarsi.. posso anche intuire che è la ( una? )strada che introduce ad una libertà senza limiti, ma talvolta mi sembra così inumana che mi scoraggia…
    chissà..

  2. mym Says:

    Sì, capisco. “Inumano” è anche l’aggettivo usato da Dogen per qualificare lo zazen.
    Puntare all’infinito comporta il prezzo più alto.

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