Non ostante i due recenti articoli con le dichiarazioni del Dalai Lama:

Il Dalai Lama: dopo di me basta con le reincarnazioni

e

Dalai Lama eletto per sfidare la Cina

non accenna a indebolirsi in Italia la convinzione che i buddisti “credano” nella reincarnazione, nel fatto che dopo morti (ma quanto dura la morte?) rinasceremo (noi chi? Le nostre idee? Il carattere? La coscienza? I vizi?) in un altro corpo. Una sorta di eternità in terra grazie allo scambio dei corpi. La cosa più curiosa è che la maggior parte dei “buddisti” -li virgoletto per metterne almeno un po’ in crisi il senso- ci crede davvero. E spesso ci crede perché è convinto che per essere buddisti occorra crederci…

Shingatse

E pensare che la reincarnazione con il buddismo non c’entra nulla, o meglio ha finito per entrarci per la forza pervasiva di una credenza antichissima, presente in molte culture orientali e occidentali. Vi è un’ipotesi tra le altre, come riportato qui sotto, che fa risalire la sistemizzazione di tale credenza a Pitagora, e poi -via Mesopotamia- potrebbe essere giunta anche in India. Dove prima ha pervaso l’induismo upanishadico e bramanico e poi il buddismo popolare. Tramite il quale è giunta in Cina senza attecchire e poi in Giappone dove le credenze sciamaniche autoctone l’hanno sempre soverchiata. Infine questa credenza si è “manifestata” in Tibet. Ora, attraversato tutto il mondo, fa “ritorno” in Occidente, come se fosse cultura buddista. In ogni caso, anche in Tibet, l’usanza di educare un bambino ritenendolo l’incarnazione di un lama, è recente rispetto alle origini del buddismo: sono “solo” 800 anni che nel Paese delle Nevi si è istaurata questa scelta di trasmissione dell’autorità, del carisma e del sapere da una generazione all’altra, mentre il buddismo è nato ben 1700 anni prima che questo suggestivo costume si manifestasse: un tempo troppo lungo per poter ipotizzare una comparsa tardiva di un elemento così importante e già presente. Eppure oggi in Occidente, anche tra gli stessi buddisti, l’idea che la reincarnazione sia parte della cultura buddista è una certezza consolidata.

Federico Rampini (I kamikaze non volevano morire, La Repubblica 17 sett. 2006) che pur ha accumulato una notevole esperienza dell’Oriente, scrive: «Nella versione nipponica del buddismo è scomparsa da tempo la fede nella reincarnazione» dando per scontato in modo così certo che nel buddismo quella fede “c’è” che laddove non ci sia questo è perché col tempo è scomparsa, non perché non ci sia mai stata.

A ben vedere non è un grosso problema: sia che viga la teoria che la reincarnazione sia un fatto, una realtà, sia che viga la teoria che si tratti di fantasia, certo è che v’è nascita, che v’è vecchiezza, che v’è morte, che vi sono pene, lamenti, dolore disperazione e mancanza di serenità. Affermare o negare tali teorie non è salutare, non appartiene ai fondamenti della vita religiosa, non conduce al sereno disincanto, al distacco, alla cessazione del dolore, alla pace alla conoscenza, al risveglio…

  • Penso possa essere utile considerare le seguenti citazioni:

\- Alan Coates Bouquet, Breve storia delle religioni, Mondadori, Milano 19944, p.41:

«Pare che i primi uomini facessero poche distinzioni fra se stessi e i loro cugini mammiferi, rettili e uccelli, e questa è la spiegazione più logica […] anche della fede nella trasmigrazione delle anime […]. Si suppone che quest’ultima dottrina in India sia il retaggio dei non-Ariani(*) dato che non se ne trova menzione nella parte più antica dei Veda, né traspare dalle mitologie nordiche europee. Si dice, per la verità, che non fosse ignota al druidismo, ma probabilmente, ciò fu dovuto a qualche infiltrazione lungo il Mediterraneo, dall’Asia Minore, in cui era certamente nota attraverso l’insegnamento di Pitagora; oppure si trattò di un residuo dell’antichissima cultura che precedette la conquista della zona mediterranea da parte degli Ariani. In India, probabilmente, essa non fu una scoperta dei Dravidi, ma forse fu passata agli invasori dagli australoidi che li precedettero».

(*) Con “Ariani”, secondo gli studi più recenti, intendiamo non una particolare razza di uomini o un popolo comparso dal nulla, ma invasori provenienti con ogni probabilità dalla Mesopotamia, gli arii: «da antico indiano aríh “straniero” e derivati infine dalla stessa base del latino alius» cfr. Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, Leo S. Olschki Editore, Firenze 20022, vol.I, 657.

\- Philippe Cornu, Dizionario del Buddhismo, Bruno Mondadori, Milano 2003, p.685:

«La credenza nella reincarnazione […] è contraria al punto di vista buddista. Il “sé” individuale, infatti, esiste solo dipendentemente dai cinque aggregati della persona, i quali sono a loro volta fenomeni composti e impermanenti, dunque soggetti a distruzione. Gli aggregati di una data vita […] si disgregano alla morte […] non vi è alcun supporto tangibile per l’esistenza di un “sé” permanente che passi da una vita all’altra. Non è quindi la stessa persona a fare ritorno».

\- Sarvepalli Radhakrishnan, La filosofia indiana, ed. Āśram Vidyā, Roma 1998, vol.I, p.124:

«I Brāhmana [una delle quattro partizioni dei Veda] contengono tutti gli spunti necessari per lo sviluppo della dottrina della rinascita. Essi sono comunque solo dei semplici suggerimenti, mentre il motivo dominante è quello dell’immortalità individuale: saranno le Upanişad a sviluppare tali suggerimenti nella dottrina della rinascita. […] Le concezioni riguardanti il karma e la rinascita sono indiscutibilmente frutto del pensiero ariano»

\- M.Anesaki, alla voce “Trasmigration (Buddhist)” in: The Buddhists. Encyclopaedia of Buddhism, a c. di Subodh Kapoor, Cosmo Publications, New Delhi 2001, vol.V, p.1451:

«Dottrinalmente il Buddhismo non insegna né l’esistenza dell’anima né la sua trasmigrazione [in successive incarnazioni], ma insiste sulla trasformazione dinamica, o “flusso”, (samsāra), di esistenze. Tuttavia, nella sua influenza sul pensiero popolare questa dottrina è assimilata a ogni altra dottrina sulla trasmigrazione».


12 Responses to “Reicarnazione e buddismo”

  1. antonino Says:

    http://studybuddhism.com/web/it/archives/approaching_buddhism/introduction/dharma_lite.html

    A quanto pare i tibetani dicono che il nostro non è vero dharma..

  2. mym Says:

    “Nostro”? Ohibò, se è nostro han ragione “i tibetani”.
    “I tibetani” potrebbero citare un sutra o un testo canonico in cui vi sia la dottrina della rinascita, se ci fosse. Oppure spiegare perché, nel buddismo vajrayana (comunemente detto “tibetano”) sono solo 6-700 anni che la credenza nella rinascita viene presa sul serio. Prima non erano buddisti?

  3. antonino Says:

    Mi intenda, sono d’accordo con lei. Ma se prova a leggere un testo del dalai lama dice “rinascita” ogni tre righe..

  4. mym Says:

    Non è un problema, almeno per chi pratica zazen: lo zazen “funziona” sia che la nostra vita attuale sia una vita singola, sia che si tratti di una serie di vite collegate una all’altra.
    Caso mai è un problema di chi sostiene che senza credenza nelle rinascite non ci sia buddismo, dharma ecc.

  5. antonino Says:

    Una domanda : per praticare zazen correttamente è indispensabile avere un contatto vicino e diretto con un maestro (frequentare quindi un centro con un maestro) o magari si può anche apprenderlo da libri e avere un contatto periodico sul web con un maestro?
    P.s. La realtà della vita, zazen in pratica è Aprire le mani del pensiero sono lo stesso libro con edizioni diverse? Perché il primo è fuori produzione

  6. antonino Says:

    Grazie in anticipo per la risposta e per i chiarimenti precedenti.

  7. antonino Says:

    La “e” dopo “zazen in pratica” è congiunzione, senza accento, per evitare equivoci grammaticali 😊

  8. mym Says:

    Buonasera Antonino, bentornato
    La realtà della vita, zazen in pratica e Aprire le mani del pensiero sono due traduzioni profondamente diverse dello stesso libro, una (la prima) è la traduzione diretta dal giapponese, l’altra è una traduzione di una traduzione inglese. Esiste un’altra traduzione ancora, anch’essa esaurita, che si chiamava La realtà dello zazen. Se ha un poco di pazienza, fra non molto -certamente entro l’anno- pubblicheremo una nuova edizione gratuita, in ebook, di La realtà della vita, zazen in pratica. Quando sarà disponibile avviseremo con un post o qualche cosa di analogo. Rispondo alla sua domanda sullo zazen in un altro momento, con pardon.

  9. mym Says:

    Torno alla sua domanda riguardo allo zazen. Per praticare correttamente zazen occorre che ci venga insegnato da chi sa come si fa zazen e, soprattutto, che lo pratichi continuativamente da molto tempo. Le persone che sanno come si fa zazen lo sanno perché qualcun altro, anch’egli con le stesse caratteristiche, glielo ha insegnato. Questo è indispensabile, il resto è accessorio. Se ha la pazienza di leggerlo, recentemente ho pubblicato il resoconto di una conversazione che ho tenuto a Torino, trova il testo in questa pagina, al primo posto.

  10. antonino Says:

    Buonasera signor Marassi (maestro, roshi, Padre? Non so come chiamarla!), grazie per la risposta. Per quanto riguarda il libro posso benissimo aspettare la nuova edizione in ebook, che a quanto mi fa intendere è migliore di quella che c’è in circolazione per ora (Aprire le mani), ed è pure gratis 😅
    Mi scusi l’humor torniamo a noi.
    Per lo zazen invece io pratico ogni giorno secondo un tempo prestabilito, e cerco di fare ciò che Uchiyama descrive nella sezione “Come si fa Zazen” e come lei descrive nel discorso che mi ha linkato “appena la mia mente si trasforma in pensiero, siccome non sono seduto per fare altro che zazen, rilasso il mio cervello e me ne sto semplicemente seduto lì. Dopo un po’, a volte dopo un bel po’, a volte subito, mi accorgo che mi sono di nuovo coinvolto in qualche fantasia, quindi lascio e me ne sto seduto lì. Tutto qua. Lo so che è difficile, ma o si fa così oppure … niente zazen: si fa qualche cosa d’altro. Non ci sono rinoceronti, visioni cristiche, filosofie daoiste che tengano. Occorre semplicemente tornare a star seduti lì. Nient’altro.”
    Avevo letto descrizioni analoghe da altre parti prima di leggere queste, e mi sembra di far giusto, paragonando la mia esperienza di zazen agli scritti. Dico “mi sembra” perché non ho, e nemmeno voglio avere l’arroganza di credere che il mio sia zazen ben fatto senza magari averne parlato con qualcuno che lo ha imparato prima e mi precede in tal senso. Non so fino a quanto io possa dire che mi è stato insegnato correttamente solo perché ho letto sul web o su libri e perché secondo la mia opinione io lo sto facendo bene, capisce?
    Altro paio di maniche per la posizione fisica, con cui ho un po’ di problemi..

  11. antonino Says:

    Riassumendo, per il come interiore vale il discorso che le ho fatto. Per il come esteriore (posizione fisica) purtroppo per le difficoltà che incontro sono spesso obbligato a ricorrere a posizioni alternative (seduto su uno sgabello, con schiena eretta, piedi piantati per terra e mani giunte per esempio)
    È un problema quest’ultimo?

    Grazie per la disponibilità che ha nel rispondere alle mie domande e per la gentilezza e il garbo con cui lo fa. Le sono grato. Buona serata.

  12. mym Says:

    Lo zazen si fa con il corpo (ciò che si fa con la mente è far sì che la mente non ci/si distragga), per cui la posizione fisica è importante. A Torino non ne ho parlato perché mi trovavo in un luogo in cui tutti i presenti sono al corrente da tempo di quale sia la posizione fisica corretta. Sono pochi, soprattutto in Occidente, quelli che riescono a sedersi in modo perfetto, siamo abituati alle sedie sin da bambini e la forma del corpo si adatta di conseguenza. È anche per questo che auspico che, chi pratica, almeno una volta incontri di persona chi può dare indicazioni sicure anche sulla forma del corpo. Provi a leggere questo libretto, forse la può aiutare.

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