«Il mio successore potrebbe essere eletto da un’assemblea di monaci»

Da La Stampa del 8/8/2006

di Claudio Gallo

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Col sorriso sornione e il disarmante candore, il Dalai Lama ha stupito tutti: basta, ha detto in sostanza, con questa mania della reincarnazione, sarebbe bene cercare il mio successore tra la comunità monastica in esilio. Come fanno i cattolici a scegliere il Papa, insomma. Poi, vedendo forse qualche bocca storta, ha aggiunto: «Mi rendo conto che i tibetani potrebbero non essere d’accordo con questo metodo».Non è la prima volta che Tenzin Gyatso, 71 anni, premio Nobel per la pace, sorprende i buddhisti. Nell’agosto del 1990 aveva detto: «Io, il quattordicesimo, sarò l’ultimo Dalai Lama. I tempi sono cambiati, non c’è alcun motivo per preservare questa istituzione». Sembrarono le parole della pietra tombale di una teocrazia durata quattro secoli. Allora molti monaci, e qualche tibetologo, rammentarono che già le antiche cronache di Bu-ston, adombravano che la durata dei Dalai Lama non potesse andare oltre le due volte sette, quattordici appunto.

«Sono un semi pensionato», ha scherzato ieri il Dalai Lama davanti a un folto gruppo di giornalisti a Dharamsala, nell’Himachal Pradesh, montagnoso stato del Nord dell’India dove risiede il governo tibetano in esilio. «Ho portato il mio popolo fuori dal nostro paese e ho cominciato il movimento per riavere indietro la nostra madre patria. Il mio successore dovrà raggiungere questo obiettivo». Poi la stoccata: «I lama più anziani dovrebbero riunirsi per nominare uno in mezzo a noi come nuovo Dalai Lama». Questo semplice schema a noi famigliare sconvolgerebbe l’antica tradizione tibetana di scegliere il nuovo Dalai Lama attraverso premonizioni, responsi oracolari e segni divini, come anche Hollywood si è divertita a raccontare in molti film.

Il potenziale candidato viene sottoposto a una serie di prove per vedere se ricorda di essere la reincarnazione del proprio predecessore. Una volta riconosciuto come il re-pontefice del Tibet, il piccolo viene intronizzato. La cerimonia di insediamento avverrà dopo la maggior età. Il sistema è largamente usato nella società tibetana. Quando muore un dignitario si cerca subito in quale bambino appena nato sia andata a cacciarsi, per dirla all’ingrosso, la sua anima: per un buddhista infatti l’anima semplicemente non esiste, una vicenda troppo complicate per spiegarla senza spaccare il capello in quattro.

Tenzin Gyatso ha detto di non essere così sicuro riguardo alla sua reincarnazione: «Nei sogni – ha detto – mi sento molto vicino al quinto Dalai Lama. Ma anche a maestri del buddhismo indiano come Nagarjuna». Tradizionalmente i Dalai Lama sono considerati l’incarnazione del Bodhisattva Avalokitesvara, la quintessenza della compassione. D’altra parte, anche in passato il pragmatismo è venuto in soccorso alle gerarchie spirituali tibetane in preda al dubbio, come quando, nel XVI secolo, il quarto Dalai Lama fu individuato, guardacaso, tra i nipotini del sovrano mongolo Altan Khan.

Per il celebre tibetologo britannico David Snellgrove, allievo di Tucci in Italia, l’idea di un «conclave» è «eccellente»: «L’unica difficoltà che vedo profilarsi – spiega – riguarda i rapporti con la Cina. Per diventare valide in Tibet, le decisioni dell’assemblea dei monaci dovranno essere sottoposte alle autorità cinesi. Non so se i tibetani saranno disposti ad accettare l’autorità cinese in questo campo».

Infatti il Dalai Lama nel suo discorso di Dharamasala è stato inusualmente polemico con la Cina che continua ad attaccarlo pesantemente attraverso i suoi giornali. «Il tempo per noi ormai è giunto – ha detto – La nostra richiesta è l’autonomia per il Tibet, per preservare e seguire la nostra religione, la cultura e l’ambiente». Se al suo posto ci sarà un Papa tibetano, non potrà neppure avere l’obliqua soddisfazione di ritornare un giorno in patria nelle fresche spoglie di una nuova incarnazione. E’ un nobile esilio il fardello di Tenzin Gyatso.