Budda-daismo meneghino

Che cosa c’è nelle brume della Lombardia, che incanta lo sguardo e lo rende leggero? Sarà che il sottile velo di nebbia, per antitesi, suggerisce l’idea che la vera nebbia è ciò che chiamiamo “realtà”.

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Sarà che la pianura, non interrotta da colline o monti, sembra il simbolo di un universo i cui confini si sperdono chissà dove. Allora l’animo del longobardo, tantopiù se artista, non si sente sopraffatto dalla malinconia, anzi impara a danzare lieve lieve nell’aria frizzante, padrone delle cose perché libero, e tanto più libero quanto più sa sorridere di sé.

Forse è questo il filo tenue che unisce le vite e le opere di autori che apparirebbero così lontani nel tempo o negli interessi. Tutti milanesi per nascita o per adozione, ognuno creatore di un suo segno inconfondibile. Si chiamano Giuseppe Arcimboldo, Achille Campanile, Dino Buzzati.

Arcimboldo è quello che dipingeva teste umane componendole di frutta fiori animali oggetti. È stato ripescato dai surrealisti come antesignano (a nostro avviso, erroneamente) della pittura dell’inconscio. È quindi diventato famoso (ma erroneamente, a nostro avviso) come un tipo bislacco che faceva cose buffe per un decadente senso del divertimento. Eppure ci sarà stato un motivo, a parte scacciare la noia, per cui l’Imperatore lo copriva d’oro.

Guardiamoli una buona volta, i suoi quadri. Si è mai visto nella storia dell’arte un simile amore per “tucte le creature”, che siano una foglia di insalata, un gattuccio o una mucca? Di nature morte – ma è più bello il termine inglese “still life” – eseguite in modo magistrale, se ne potrebbero elencare a iosa; ma nessuno prima di lui aveva sistematicamente radunato i soggetti del dipinto in modo da formare dei ritratti umani. E perché? Perché il ritratto, soprattutto per un artista di corte come Arcimboldo, rappresenta il modo più immediato per onorare qualcuno. In questo caso, per onorare ogni cosa. E poi, il volto umano ha il vantaggio di poter sorridere con dolcezza.

Su Achille Campanile dovrebbe uscire prima o poi un articolo sulla versione cartacea della Stella del mattino, a meno che non insorgano problemi di Fede, con la F maiuscola.

Di Dino Buzzati i più conoscono Il deserto dei tartari; qualcuno, più specializzato, il Poema a fumetti; a rimorchio di questi, qualcuno avrà anche intravisto gli ex-voto disegnati da Buzzati sulla falsariga di quelli che si trovano nei santuari, ma rielaborandoli in maniera ironica, come le donne che offrono un P.G.R. per essersi salvate da un vampiro o da un robot stupratore.

Qui vorremo citare Il libro delle pipe, da lui scritto e illustrato nel 1934 insieme al cognato Eppe Ramazzotti; pubblicato per la prima volta nel 1946, l’edizione più recente è quella di Giunti, Firenze 1986, pagg. 126, s.i.p. Il volume si presenta come una monografia vecchio stile, in un italiano patinato e un po’ ottocentesco, corredato di pseudo-incisioni d’epoca.

Ecco per esempio a pag. 42 l’illustrazione della “Pipa protetta” con la seguente didascalia:

il vaso è ricoperto di paglia intrecciata, che protegge la fragile schiuma;
ma la è spesso debole protezione. Ci narrava l’enologo Umberto Minughi,
persona degna di fede, che una simile Pipa ebbe a spezzarsi cadendo
in un burroncello di ventun metri.

Oppure a pag. 44, tra le forme delle Pipe scolpite, si enumera: “Femmine discinte. Son spesso di piacevoli forme e, talvolta, interamente nude. I maggiori artefici del bulino non disdegnarono di cimentarsi in questo genere di scultura, un tal poco libero, quando non sia vero sconcio! Giustamente avversate dal Clero e dalla Magistratura”. Una nota a piè pagina sbugiarda l’assunto, precisando: “Noi stessi ne possediamo più d’una, che Iddio ci perdoni!”.
E il buddismo? Come il diavolo, si cela nei dettagli. Morale della favola:

Fuma il cocchiere nella lunga Pipa.
Saluta dal calesse Maddalena.
Il vento incurva l’erbe sulla ripa.
Tra poco, sera. Poi la notte piena.

dr