Gio, 12 Apr 2007
Per par condicio
Alcuni lettori -per primo DR nel suo commento– mi hanno fatto notare che, specialmente nelle manifestazioni esagerate, pompose e ridondanti, tutto il mondo è paese. Non è giusto allora mettere alla berlina un versante lasciandone un altro nascosto. Ho cercato tra le fotografie che documentano i momenti clou della mia carriera formale e l’unica immagine che ho trovato adatta a rappresentare gli eccessi della nostra “parrocchia” è quella che vi sottopongo. Se volete: commentate.
mym
5 Commenti a “Per par…”
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13 Aprile 2007 alle 12:01 pm
Caro mym sei troppo democratico 🙂
Non c’è paragone, qui è tutto molto più essenziale, indubbiamente.
Sono stato invece in qualche tempio tibetano e ho visto tantissimi tessuti finemente disegnati e colorati da tutte le parti. Ma era un bel vedere e rallegrava la vista. Sarò io lo strano?
Al
13 Aprile 2007 alle 7:43 pm
Anche la mancanza di fronzoli può diventare un fronzolo. Si è liberi quando lo si è da tutto, anche da niente. 😉
14 Aprile 2007 alle 11:56 am
L’abito non fa il monaco, dice un adagio nostrano: vuol dire, credo, che non si deve giudicare una persona da come si veste, ricca interiormente se di splendidi abiti addobbata, indigente di cuore se di laceri panni rivestita. Anche se non è lo specchio dell’anima, l’abito non è però sempre innocente: vestirsi per un rito religioso non è indossare a caso la prima cosa che si trova nell’armadio: c’è dietro una scelta, un’intenzione. La domanda dunque è lecita e solo in parte retorica: perché tanti prelati di tante religioni si conciano, per celebrare riti che simboleggiano la libertà dello spirito, in modo da suscitare, alla vista, non il raccoglimento e l’ardore, ma incredulo ironico stupore? La vanità è un peccato, e pazienza, nessuno è perfetto: ma il ridicolo è letale, perché non suscita lo stimolo al perdono.
17 Aprile 2007 alle 8:14 pm
Una volta i ministri del culto di molte religioni, prima di avvicinarsi all’altare, si lavavano le mani e indossavano abiti puri per non contaminarlo con le lordure della vita quotidiana: quegli abiti dovevano rendere onore al dio cui si rivolgevano ringraziamenti e preghiere, e i fedeli erano lieti di rinunciare a una fetta di pane per offrire ai ministri un frammento di quell’abito.
Una volta la maggior parte delle persone vivevano in dieci in una stanza senza pavimento e senza mobili e offrivano ai ministri il loro centesimo, risparmiato sulla lana per coprirsi, perché potessero ornare la parete del tempio con drappi di porpora e oro.
Una volta i ministri celebravano i riti servendosi di lingue e formule arcane, incomprensibili ai fedeli, cosicché questi erano colti da timore reverenziale davanti a chi, con tale linguaggio, sapeva comunicare con la divinità.
Una volta i ministri, paludati nella porpora e parlando latino, reggevano i fili della vita di ognuno che, ammirato e sbigottito, sceglieva di ubbidire a chi sapeva e poteva tanto di più.
Una volta il popolo straccione e incapace di parlare bene non avrebbe mai pensato di poter chiedere “perché?” a chi vestiva e parlava con tanta evidente superiorità.
Una volta?
24 Aprile 2007 alle 3:57 pm
Però, contraddicendo in parte quanto affermato sopra, è vero che
la ritualità è una costante antropologica, però è anche vero che
bisogna dirsi ben chiaro: se il Crocifisso ha dato origine a dei
RITI in cui il fedele rivive il Suo sacrificio, allora il cristianesimo
è un banale culto misterico, come Iside o Mitra. Se invece la
forza eterna del Cristo consiste nella sua capacità di creare
“scandalo”, allora diventa lecito dubitare che lo scopo della
sua missione fosse quello di inventare nuove cerimonie (neppure
troppo nuove, peraltro…).