In questa pagina la prefazione al libro Intelligenza volse a settentrione di M.Y.Marassi scritta dal priore di Bose, Enzo Bianchi

Agli osservatori più attenti del monachesimo non sfugge la sua natura di fenomeno antropologico presente da sempre in tutte le grandi religioni, monoteistiche e no, con caratteristiche molto simili nonostante le profonde differenze di origini, di convinzioni, di testi sacri. Del resto una vita «monotropica» come quella monastica – una vita cioè abitata da una ricerca di unificazione interiore perseguita con altri che assumono un unico comportamento in vista di un unico fine, caratterizzata dal celibato, dalla rinuncia ai beni materiali, dall’obbedienza e ritmata dall’alternarsi di preghiera e lavoro – agisce su elementi talmente profondi dell’essere umano da conferirgli una struttura interiore ben precisa e, appunto, meno sensibile a differenze dogmatiche o rituali. Non è un caso, quindi, che il dialogo interreligioso avviatosi nella seconda metà del secolo scorso veda i monaci tra i suoi protagonisti più attivi e, nel contempo, meno a rischio di sincretismo o di «indifferentismo».

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Tra gli elementi di forte parentela fra i diversi monachesimi vi è indubbiamente il legame che unisce maestro a discepolo, legame solo in parte riconducibile alla categoria dell’obbedienza. Elemento, questo, già presente sia nella tradizione ebraica più antica – e sopravvissuto fino a oggi, ben al di là della breve stagione a cavallo dell’inizio dell’era volgare che conobbe il fiorire del monachesimo anche all’interno dell’ebraismo – sia in tutte le civiltà in cui la trasmissione orale del patrimonio culturale e sapienziale ha suscitato la stessa tradizione scritta e continua a convivere con essa anche ai nostri giorni.

«Abba, dimmi una parola!» era il caratteristico invito che il discepolo di un padre del deserto rivolgeva al suo maestro per riceverne un insegnamento concreto per la vita quotidiana e per il progresso spirituale. «Parola» che non era un semplice «lemma», un’espressione verbale, ma una parola contenente in sé le potenzialità per divenire evento, fatto, realtà concreta: qualcosa, quindi,di legato alla vita e all’azione, al punto che molti di questi «aforismi» (apoftegmi, «detti» è il termine usato per le raccolte che li hanno fissati su papiri e pergamene) non contengono «parola» alcuna. Spesso il «maestro» (più semplicemente indicato come «anziano»), l’abba interpellato si limita a ricordare un episodio, un gesto, un mimo compiuto da un altro fratello, oppure a narrare una parabola.

E un aspetto non trascurabile di questo rapporto maestro-discepolo, comune alla tradizione ebraica (si pensi ad alcuni Racconti dei chassidim stupendamente tramandatici da Martin Buber), cristiana e buddista è proprio l’umorismo come veicolo di insegnamento, l’aforisma che, proprio mentre suscita il sorriso, si rivela capace di trasmettere un germe di sapienza destinato a mettere radici e a crescere nel cuore e nella mente del discepolo. L’origine a volte estremamente «puntuale» di un’osservazione – nata da un evento concreto, banale all’apparenza, irrilevante per la sua consuetudine – può improvvisamente rivelarsi portatrice di novità inaudite che solo l’occhio, l’orecchio e il cuore di un osservatore non banale riescono a percepire e a far germogliare.

L’umorismo, lungi dall’essere banalizzazione della dimensione religiosa, è parte integrante della strenua lotta anti-idolatrica che buddismo e giudeo-cristianesimo non cessano di combattere da millenni; e anche in ambito più «laico», non è forse il «buffone», un professionista dell’umorismo, colui che smaschera l’ipocrisia dell’idolo al potere gridando «il re è nudo»? Umorismo come «arma non violenta» per l’unica, seria lotta che l’uomo non cessa mai di combattere, quella contro gli idoli dentro e fuori di sé: lotta che non a caso accomuna in profondità maestri zen e padri del deserto.

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In questo combattimento la sapienza buddista può essere di grande aiuto anche al cristiano perché la vera alternativa nel suo cammino di sequela dietro a Cristo – secondo l’interezza del messaggio biblico – non è tra fede e ateismo, bensì tra fede e idolatria. Avere chiaro nella mente e nel cuore questo dato significa accettare che l’idolatria è tentazione perenne anche per la chiesa, occasione di caduta per ogni cristiano: per la bibbia infatti non ci sono atei da una parte e popolo di Dio dall’altra, ma idolatri e credenti tentati dall’idolatria. Non a caso i profeti hanno sempre chiamato «idolatria» tutte le prevaricazioni dell’uomo sull’uomo, le ideologie divinizzate erette a copertura dell’ordine sociale, le sicurezze fabbricate dagli uomini per dare vita alle forme più opprimenti di ingiustizia. L’idolo è infatti una forza che rinvia l’uomo alla sua voracità e la alimenta, una dominante che sopprime ogni distanza e ogni differenza e conduce l’uomo a pretendere che tutto sia suo, a portata di mano, senza mediazioni: per questo l’idolatria si manifesta sempre come negazione della distanza da Dio e rende quest’ultimo manipolabile dall’uomo.

Forse questa ottica di lotta anti-idolatrica ci aiuta anche a interpretare affermazioni che potrebbero apparire di irriverente sarcasmo nichilista e che collocherei piuttosto nella feconda categoria del dubbio: «Io dubito, potrebbe dire il credente, riferendo così a sé il senso del discorso, al suo incessante interrogarsi di fronte al mistero, invece che appoggiarsi a un oggetto esterno, necessariamente da noi postulato. E quelle poche volte in cui gli fosse necessario definirsi, collocarsi rispetto a una religione teista, potrebbe farlo sfumandone il tratto, parlando dell’unica saldezza in mezzo a tanti dubbi: non aver trovato nulla in cui credere, lasciando così la propria fede pura, libera di rivolgersi, interrogativa a Dio»[1].

Sì, frutto di dubbio e di ricerca, queste pagine di «umorismo e meditazioni buddiste» sono impregnate di sapienza che sarebbe riduttivo definire «orientale»: la sua portata ha dimensioni «universali», in grado di spaziare storicamente e geograficamente fino ad abbracciare l’esistenza di ciascuno di noi, prima e al di là di un eventuale «credo» professato.

E vorrei concludere con una notazione più personale. Conobbi l’autore di queste pagine oltre trent’anni or sono, durante quelli che per lui furono gli anni «degli Zen di Torino»: una comune sollecitudine per la ricerca interiore, una passione condivisa per ciò che può dar senso alla vita ci aveva avvicinati, facendoci condividere momenti di amicizia e di confronto. Poi, gli scambi si diradarono e lasciarono spazio al silenzio, facendo supporre un reciproco oblio. In realtà quella «simpatia», quella affinità di sentire, continuò a scorrere come un fiume carsico, riaffiorando qua e là in sporadiche occasioni e oggi sfocia in questo breve preambolo a un libro «religioso […] perché il collante delle sue parti risiede nella vita dell’autore»[2].

Ecco, anche questa prefazione è attaccata per un angolo alle pagine di Mauricio con il medesimo collante.

Enzo Bianchi
Priore di Bose

 


[1] Cfr. infra, 40.
[2] Cfr. infra, 5 s.

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