Questo testo è tratto dal libro Intelligenza volse a Settentrione, di M.Y.Marassi, la cui prefazione, a cura del priore di Bose, Enzo Bianchi, è consultabile in queste pagine.

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C’era una volta, in un tempo mai utilizzato, abbandonato e messo da parte in un angolo perché arrivato tardi all’appuntamento con il tempo, un’isola molto tranquilla. In quell’isola viveva il Popolo delle Tartarughe. Simpatiche, le tartarughe. Anche se al primo sguardo potrebbero sembrare tutte uguali, per chi le conosca un poco è possibile distinguerle una dall’altra ed anche capire facilmente quali siano i maschi e quali le femmine. Però, per distinguere le signore tartarughe dai signori tartarughi occorre guardarle “sotto” e le tartarughe (come pure i tartarughi, del resto), comprensibilmente, non amano farsi guardare “sotto”. Lasciando da parte tali particolari tutto sommato secondari, occorre dire che la vita di questo industrioso e silenzioso popolo è notoriamente improntata alla saggezza ed alla moderazione. Per esempio, ricordo che una volta, non molto tempo fa, in un tempo che si è conservato, un poco ingiallito, tra le pieghe del tempo, una tartarughina dolce e romantica di nome Churchy (1) aveva invitato un amico a compiere con lei una gita in barca. Desiderosa di organizzare ogni cosa nel modo migliore, la piccola Churchy aveva caricato sulla barca, per metà arenata sulla riva, un gran cesto da pic nic ricolmo d’ogni ben di Dio e poi bottiglie di sciroppo, di birra e di salsaparilla, canne da pesca, esche di tutti i tipi, carte da gioco, una chitarra, un violino con l’archetto, coperte per riscaldarsi se si fosse rannuvolato, razzi per le segnalazioni, cassetta del pronto soccorso… insomma tutto ciò che potrebbe servire per una gita in barca organizzata bene.

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Sennonché, quando Churchy, aiutata dal suo amico, provò a spingere la barca per farla entrare nell’acqua, si accorse che la barca, appesantita dal carico che conteneva, si rifiutava a tal punto di essere spinta in acqua da rimanere piantata immobile stolida ed altezzosa, con la chiglia testardamente sprofondata nella sabbia. Per un istante la tartarughina si sentì venir meno ma ricorrendo alla grande saggezza che contraddistingue la cultura del suo popolo, con un sorriso birichino propose al suo amico di spingere in acqua -ed utilizzare per la loro escursione- la barca che si trovava lì a fianco che, essendo vuota e leggera, poteva essere varata con facilità. Naturalmente la proposta fu accettata e la gita poté iniziare sotto i migliori auspici della semplicità e della saggezza. In quell’isola fortunata il tempo sembra trascorrere come al solito: una bella fila di domani che, ad uno ad uno, si trasformano pigramente nell’oggi, poi una stringa di oggi in fila ininterrotta, così lunga e continua che guardando avanti non si riesce quasi a vedere il punto esatto, la fessura da dove i domani, a cascata, si riversano nell’oggi. Come accade in ogni tipo di tempo, persino in tempo reale, anche in quell’isola felice gli ieri, più timidi e schivi dei loro fratelli presenti e futuri, non apparivano, se non chiamati a bella posta da chi li voleva far riapparire ma, un poco magicamente, ogni ieri richiamato in vita era diverso da come era stato quando era un oggi e formava, nell’oggi di adesso, un nuovo modo di riporre quell’ieri. Tutto ciò non impediva alle buone tartarughe di costruire operosamente la loro vita occupandone tutto il tempo, con generosità, senza badare se questo fosse un semplice oggi oppure un domani un po’ invecchiato o, addirittura, già uno ieri divenuto tale perché non era stato abbandonato in tempo.

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Avvenne così che un giorno, uno di quelli di cui abbiamo appena parlato, Galpy, una tartaruga facoltosa, nota a tutti per la diffidenza puntigliosa e per l’amore per i banchetti, invitò un gruppo di amici a pranzare, a sue spese, in un notissimo ristorante fuori porta. La ricca tartaruga intendeva festeggiare, assieme ad amici e colleghi, un suo recente successo finanziario nell’impiego del tempo libero. Tra l’altro, i soliti bene informati dicevano che all’inizio, ai tempi dei tempi, i primi denari li avesse fatti proprio con un turpe traffico di tempi morti. Comunque, secondo l’antico ed un poco cinico adagio che recita: pecunia non olet, gli invitati avevano accettato di buon grado di partecipare al pranzo che, dai presupposti, si attendeva sontuoso. Così, all’ora del giorno convenuto, si trovarono tutti assieme sotto casa di Galpy per recarsi in quel famoso ristorante.

Era una giornata fresca e stuzzicante: nell’ultima settimana il tempo si era messo al bello e pareva proprio la giornata adatta per fare una passeggiata in comitiva. Il ristorante non era poi così lontano e siccome tutti avevano preso tempo per l’occasione, decisero -senza stare a calcolare chi potesse metterne di più e chi di meno- di porlo fraternamente in comune e di impiegarlo per sgranchirsi un poco le gambe raggiungendo a piedi la loro meta; un modo per accumulare una bella scorta di appetito e far pienamente onore al grande pranzo che li attendeva. Già dopo il primo tratto di strada l’allegria, la bella giornata e l’occasione inconsueta di trascorrere assieme una vacanza avevano generato un clima di compagnoneria dove le differenze gerarchiche si affievolivano e gli scherzi, le battute ed i lazzi si incrociavano irriverenti senza ritegno. Per i motivi espressi poc’anzi non era possibile capire (non era certo l’occasione migliore per guardargli “sotto”!) di quante tartarughe e di quanti tartarughi fosse composta la compagnia, ma già dopo la prima settimana di strada era evidente che qualche simpatia cominciava a sbocciare. Una caratteristica comune, che permetteva all’allegra brigata di trascorrere il tempo in armonia, era la passione per il canto. Quanti di voi abbiano ascoltato, in una tiepida notte d’estate, il canto d’amore della tartaruga sapranno a che cosa mi riferisco. Era tutto un gorgheggiare ed un lanciare acuti con accompagnamenti corali che, pur perdendo a volte il tempo e dovendosi poi acconciare per ritrovarlo, davano la sensazione che il gruppo avesse un’antica consuetudine al cantare assieme ed all’armonia musicale. Insomma, senza farsi neppure scorgere, o appunto per questo, il tempo passava veloce e a nessuno veniva in mente di andar a vedere dove andasse poi a finire. Rapidamente trascorsi i primi due anni di cammino, un poco accaldati per la salitella che avevano affrontato proprio negli ultimi giorni e con la gola secca per il gran cantare, fecero una breve sosta ad una fontana che zampillava argentina a lato della strada. La colonnina di bronzo con la cannella da cui usciva il prezioso liquido era all’ombra, sotto un pergolato fiorito che spargeva nell’aria di quella radiosa giornata un profumo quasi celestiale. Galpy approfittò della sosta per chiamare, con il telefonino, il ristorante presso cui erano diretti: “Fidarsi è bene ma….” pensava tra sé mentre chiedeva, al maître che aveva risposto, di rassicurarlo -per l’ennesima volta- che ogni cosa sarebbe stata pronta all’ora di pranzo.

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Ripresero allegramente la strada con nuova lena, rinfrancati dall’acqua fresca e dal fatto che, tra le svolte della strada che si arrampicava sulla collina, già si intravedevano le torri del castello, circondato da un boschetto di querce centenarie, nel quale i migliori cuochi della regione stavano approntando un grande banchetto. Arrivarono al posteggio del ristorante nella tarda mattinata. Era l’ultimo giorno del dodicesimo mese del terzo anno dalla loro partenza, e guardandosi indietro potevano ancora vedere, qua e là per la campagna, qualcuno delle centinaia di giorni che si erano lasciati alle spalle, compreso qualche pezzetto di tempo perso che era rimasto impigliato ora tra i rami di una siepe, ora sulla punta di un’antenna televisiva. Furono accolti come meritavano, con deferenza e attenzione alle esigenze di ognuno così che nessuno si sentì escluso o da meno.

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Dopo essersi rinfrescati le mani ed il viso, aver bevuto un aperitivo alle erbe un poco alcolico dallo stuzzicante aroma di vitalba, si avviarono baldanzosi, Galpy in testa, a passo di marcia verso la grande sala da pranzo scintillante di preziose cristallerie e stoviglie d’oro, circondata da tendaggi che schermavano dolcemente la luce del sole al suo apice. Quando, all’improvviso, il signor Galpy portò una mano al petto, tastandosi con occhi preoccupati là dove avrebbe dovuto trovarsi il portafoglio e con voce per una volta contrita disse: “Ragazzi c’è un contrattempo: ho dimenticato il portafogli a casa. Abbiate pazienza: se mi date il tempo vado, lo prendo e torno.” Le tartarughe, tutte assieme, fecero a gara per rassicurarlo che c’era ancora tempo e ne prendesse pure tutto quello gli era necessario ché loro lo avrebbero atteso tranquillamente. Così Galpy con la sua caratteristica andatura dondolante dalle ampie falcate, scomparve dietro le pesanti tende di una porta finestra che dava sull’esterno. Le altre tartarughe si sparsero pigramente per i saloni del castello e c’era chi, inforcati gli occhiali, leggeva il giornale che ancora croccante di stampa i solerti camerieri avevano posato sui tavolini, chi approfittava dell’insperata occasione per insistere con quell’aperitivo alle erbe e chi ancora inseguiva da presso una delle tartarughe più avvenenti sperando di porre nell’oggi quei semi invisibili e chiari che un domani, divenuto oggi, sarebbero potuti germogliare in un’avventura. Insomma, il primo anno trascorse veloce e prima che qualcuno, inevitabilmente, proponesse una partitella a carte o al classico dammilbraccioetifaròvedere, anche il secondo ed il terzo anno erano volati via cosicché guardando l’ora, più d’uno aveva detto al suo vicino: “Ora torna”. Verso la fine del quinto anno, quando qualcuna delle tartarughe più giovani cominciava a mostrare qualche segno di impazienza sia per la noia dell’attesa sia per l’appetito, un cameriere, a bassa voce, aveva proposto di occupare quegli ultimi pochi scampoli di tempo che li separavano dal ritorno del signor Galpy, con una puntatina nella saletta privata dove, senza clamore, nella discrezione sicura di quel luogo di lusso, si poteva partecipare ad una eccitante gara dal vivo in cui i partecipanti avrebbe potuto ammazzare il tempo. Un lavoro pulito, tutto sommato poco costoso; la direzione si sarebbe occupata di tutta la parte più spiacevole, compresa una lauta mancia alla polizia locale affinché chiudesse un occhio sulla sparizione improvvisa di qualche giorno e sul suo miserevole destino. Furono in particolare le tartarughe ad accettare l’invito e, anche se non parteciparono direttamente alla battuta, trascorsero tutto il tempo accanto ai tartarughi più audaci fremendo eccitate ogni volta che il colpo veniva vibrato, distogliendo gli occhi solo alla fine quando, oramai, agli inservienti non restava che trascinare via i poveri resti senza vita di un giovedì o di un lunedì che non erano più.

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Ad un certo punto, però, qualcuno iniziò veramente a spazientirsi, dalla partenza di Galpy era quasi trascorsa la metà del settimo anno e, conti alla mano, in molti sostenevano che per fare tutta la strada andata e ritorno, non ci volevano più di cinque anni e mezzo, massimo sei, da casello a casello, e che se ancora Galpy non era arrivato la colpa era sua ed allora non lo si doveva più aspettare ed il pranzo doveva cominciare. Dopo qualche settimana anche i più titubanti si convinsero che un ritardo di quella portata non era accettabile e che Galpy stava così sperperando il tempo di tutto il gruppo, che c’era gente che andava a LA-VO-RA-RE e non poteva stare ai comodi di tutti quelli che decidevano di prendersi il loro tempo in modo esagerato. Si avvicinarono così alla tavola imbandita mentre i camerieri facevano ala, spostando le sedie ed indirizzando ciascuno al proprio posto. Gli antipasti cominciarono ad arrivare, il vino fu versato, il primo boccone stava per giungere alla bocca del più lesto tra i commensali quando le tende a lato della grande tavola imbandita si scostarono sventagliando ed all’improvviso apparve Galpy che, con aria tra il seccato ed il disgustato, si rivolse alla compagnia dicendo: “E no, cari miei, se cominciate a mangiare senza aspettarmi, non vado eh!”.

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