Questo testo è tratto dal libro Piccola guida al buddismo zen nelle terre del tramonto, di M.Y.Marassi

La strada, piena di pozzanghere in cui l’acqua rifletteva il cielo plumbeo quando non era intorbidata agitata dal passaggio dei rari veicoli, terminava all’incrocio con la statale numero sei. Dal lato opposto, pochi metri oltre le ultime case, si perdeva tra le erbe spinose di un terreno ingombro di materiali di risulta, assi da cantiere, una carcassa d’automobile. Un albero di ciliegio, solitario ricordo di un tempo in cui la terra non serviva solo per costruire o appoggiarvi rifiuti, allargava i rami spogli come tentando pudicamente celare lo sfondo di colline trasformate in quartieri senza sole. In una delle casette ad un piano, separate dalla strada da un giardinetto pieno di erba gialla e di spunzoni anneriti dal fumo delle fabbriche, vi era un movimento insolito di persone, adulti ma anche molti bimbi. Tutti vestiti come la domenica in chiesa; anche i ragazzetti più scalmanati tenevano la testa bassa ed il berretto in mano. Solo qualche rapido sguardo di sbieco tradiva la loro voglia di correre e fare banda. Medith sedeva sugli scalini freddi in cima al pianerottolo che dal giardino portava in casa. Salutava appena i visitatori che passandogli accanto gli davano chi una carezza sul capo chi una stretta alla spalla. Sentiva un peso doloroso allo stomaco; i pensieri, le sensazioni, i colori del giorno erano incupiti impregnati dalla percezione del dolore, a momenti pulsante a momenti più sfumata. Avrebbe voluto abbracciarsi da solo, essere in grado di dirsi parole tranquille e rassicuranti che lo conducessero fuori dalla gabbia penosa della sua vita. Ogni tanto gli tornava alla mente il momento in cui ieri, tornando da scuola, aveva visto tutta quella gente che fitta fitta attorno all’ambulanza bloccava il traffico sulla statale. E poi subito sua madre con gli occhi spalancati quasi guardasse ad un futuro che le scompariva davanti, con le mani premute sulla bocca, e la zia Dora che lo abbracciava piangendo e lui a poco a poco capiva che Luca, suo fratello piccolo, era morto. Medith aveva già conosciuto la rasoiata improvvisa e senza scampo della morte. Tre anni prima, al funerale di suo padre; ricordava come una spina angosciosa la fatica disperata che aveva fatto per cercare di non far entrare dentro di sé la consapevolezza che non lo avrebbe visto mai più. Ora era diverso, lo feriva il dolore della perdita sapendo che non vi era assolutamente scampo. Ma vi era anche dell’altro. Si sentiva definitivamente tradito dalla vita, dall’esistenza tutta, dal suo essere che mentre anelava la pace e un sorriso in una casa serena lo ripagava con la disperazione della morte che era, già lo vedeva, la morte di tutti. Anche la mamma, anche lui stesso. Non era più un dolore che schianta, quel dolore che dopo il pianto scompare come il temporale scacciato dai raggi del sole che riprende il suo dominio sul mondo. La lama fredda della pena che accompagna il cammino dell’uomo ignaro dell’ignoranza era già penetrata a fondo nel suo cuore.

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