(Dal secondo capitolo de Il buddismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture. La Cina)

Parte prima

Raccontando lo star seduti in quiete
Lo zuochan con il nome letto alla giapponese, zazen, nominalmente è tra le pratiche buddiste più note; in realtà -anche a causa di una normale scarsità di praticanti (1) che abbiano imparato il giusto modo da chi questo modo realmente conosce- l’effettiva consistenza, la motivazione, il “dove porta”, il come e perché dello zazen sono per lo più travisati. Poiché il buddismo mahāyāna non è diverso dalla vita reale e questa vissuta secondo quello si basa essenzialmente sulla pratica quotidiana, è bene dare maggior contezza possibile, seppure a parole, di questa base fondamentale del vivere all’interno del vasto oceano che in Occidente chiamiamo buddismo. Cosicché nello sviluppo del testo quando rimanderemo al senso concreto, vissuto, del buddismo sia più chiaro a che cosa stiamo pensando.
In quanto modo di sedersi non si sa da quando la postura a gambe incrociate sia stata praticata. Certamente non è appannaggio di una sola cultura ma, in varie forme, la troviamo in ogni parte del mondo quando non si faceva uso delle sedie o presso popoli che non ne fanno uso anche oggi.
In effetti, in Europa, sia le generazioni che ci hanno preceduto e hanno contribuito a determinare l’ambiente fisico nel quale viviamo, sia la nostra vita vissuta dalla nascita sino ad ora, ci hanno reso difficile compiere un gesto che qualsiasi bambino nelle prime fasi di vita può fare senza il minimo sforzo: incrociare le gambe mettendo i piedi capovolti, appoggiati sulle cosce. Le gambe si sono irrigidite, le articolazioni si piegano solo nel verso necessario per usare una sedia o una poltrona… così per imparare nuovamente qualche cosa che ci era naturale occorrono spesso anni di costanza in mezzo a dolori molto forti (2). Di rado si incontrano persone che recuperano la necessaria elasticità in tempi molto brevi, senza particolari problemi.
Dal punto di vista statico la posizione seduta con tre punti d’appoggio, ossia l’insieme delle natiche e le due ginocchia, è certamente la più stabile tra tutte quelle che potremmo assumere rimanendo desti e tonici; la posizione sdraiata, seppur più stabile, è invogliante al sonno ed al torpore e non adatta quindi alla veglia. La posizione seduta con la schiena eretta e le mani in grembo appoggiate sui talloni ci permette di stare immobili anche per lunghi periodi senza danneggiare il corpo e senza accusare particolare stanchezza.
Le gambe incrociate, pur con i limiti di cui sopra dovuti al regresso della capacità di star seduti a livello pavimento, permettono una circolazione particolare del sangue, impedendo ristagni e mantenendo sia la parte inferiore sia la parte superiore del corpo in perfetta efficienza. Quando ci si alza si è subito pronti all’azione anche dopo molte ore di immobilità. La posizione eretta della schiena e del collo permette una corretta respirazione senza ristagno dell’aria nei polmoni e con un leggero deflusso di sangue dal cervello, o forse è meglio dire: senza un’affluenza anomala di sangue al cervello. Lo stomaco, i reni, il fegato, il cuore si trovano in una posizione in cui non vengono compressi in nessun modo per cui esplicano la loro attività senza limitazioni. Tutta la muscolatura può rimanere rilassata ma non abbandonata.
Sebbene la posizione seduta a gambe incrociate non sia una prerogativa indiana, tuttavia è indubbio che in India già tremila anni or sono tale posizione era diffusa e soprattutto praticata intensamente come forma ottimale del corpo durante gli esercizi spirituali, che nella cultura religiosa orientale non sono mai disgiunti dalla forma che assumiamo con il corpo. Nella valle dell’Indo, a Mohenjo Daro (3), sono avvenuti ritrovamenti di terracotte che, pare proprio, rappresentano asceti a gambe incrociate: si tratta di reperti di epoca pre-Arya, databili al terzo millennio a.C. Per questo molti ritengono certo che la posizione di zazen, gambe incrociate, schiena diritta, mani in grembo sui talloni, sia di origine unicamente indiana. Tuttavia in India non ha mai costituito l’unica forma fisica della pratica religiosa: sono sempre state molte le forme, fisiche e mentali, praticate prima dell’avvento del buddismo con l’intento di unificare il proprio spirito con l’essenza divina dell’universo, il Brahman, e poi, secondo l’insegnamento del Buddha, come manifestazione concreta della via che conduce alla completa liberazione dalla sofferenza.
Come vedremo in seguito nel dettaglio, il termine zuochan/zazen è la lettura degli ideogrammi 坐禅, dove 坐 sta per “sedersi” e 禅è la traslitterazione (usando l’ideogramma come un fonema) del sanscrito dhyāna, “assorbimento in meditazione”. La parola 坐禅 zuochan/zazen è stata coniata tra il terzo e il quarto secolo, in Cina, ma indica qualche cosa di molto più antico. L’identificazione della forma che oggi chiamiamo zazen come pratica privilegiata tra le altre, risale agli inizi del sesto secolo. Si narra che un monaco buddista indiano (secondo alcuni di origine persiana), recatosi in Cina tra il V e il VI secolo, abbia insegnato lo zazen come pratica fondamentale per avviare e mantenere corpo mente e spirito sulla via che conduce alla liberazione dalla sofferenza.
Bodhidharma, così si chiamava quel monaco, aveva sperimentato di persona che l’applicazione completa dell’insegnamento del Buddha doveva comprendere quella pratica, per cui la raccomandava, seppure non ritenesse né che fosse l’unica forma valida né che l’intero insegnamento si potesse ridurre a quello.
Fu nel tredicesimo secolo, in Giappone, che Eihei Dōgen ebbe sufficiente esperienza, approfondimento e comprensione di questa pratica da poterla proclamare come necessaria. Non in polemica o, addirittura, discredito delle altre pratiche ma come affermazione certa, asseverata, della completa presenza in essa di tutti gli elementi necessari affinché l’insegnamento sia compiuto. Necessaria non vuol dire sufficiente: siccome per la maggior parte del tempo non siamo seduti davanti ad un muro con le gambe incrociate è indispensabile che tutto quel tempo sia usato secondo la didattica buddista del non afferrare quel che nuoce agli esseri, adoperandosi per il bene, consapevoli della vuota impermanenza della vita.
Comprendere profondamente l’insegnamento del Buddha è comprendere il senso di questa pratica attraverso una vita di esperienza in essa. Noi, che siamo carenti in intelligenza ed esperienza, possiamo sopperire inizialmente con la fiducia nell’affidabilità delle persone che propongono lo zazen, ma poi sperimentando di persona dobbiamo mettere alla prova questa via, a fronte di ciò che il buddismo dice di essere. Il buddismo si offre come didattica che conduce all’estinzione della sofferenza: senza verificare attentamente se una vita fondata sullo zazen coincida o meno con la realizzazione di questo programma il buddismo e la sua pratica diventano un hobby, un’attività ricreativa.

La catena ad anelli aperti
Riguardo alla storia ed al significato è opportuno notare che negli ultimi duemila cinquecento anni il senso profondo del buddismo è stato compreso e messo in pratica da molti milioni di persone. Di queste, alcune migliaia hanno lasciato traccia del loro percorso con parole scritte o parlate. Ed anche nel nostro tempo vi sono persone che seriamente, sinceramente e intensamente hanno praticato e praticano questa via di salvezza. Imparare a “fare” zazen consiste nel collegarsi a queste persone ed imparare passo dopo passo non solo il come durante lo zazen ma anche il funzionamento complessivo della nostra vita in relazione allo zazen.
Nel momento in cui una persona veramente esperta non sia disponibile è preferibile tentare da soli. Pur essendo rischioso nei confronti del nostro tempo, dell’utilizzo della nostra vita.
Dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti per verificare se ciò che stiamo vivendo o che ci apprestiamo a vivere è una vera e profonda esperienza di liberazione in senso buddista, oppure una serie di illusioni più o meno autoreferenti, più o meno auto consolatorie, più o meno legate al nostro desiderio. A questo fine, le tracce di coloro che ci hanno preceduti e di coloro che ora ci precedono si possono confrontare con la nostra personale esperienza sia in termini di vicenda umana sia in forma di raccomandazioni dirette, di prima mano, o tramandate da persona a persona o contenute in alcuni testi che raccolgono la testimonianza di chi ha fatto veramente della propria vita un occasione per fare zazen, cioè -ed è un altro modo di dire la stessa cosa- di chi si adopera per far sì che tutta la propria vita passi attraverso di esso.
Non solo: dal momento che la pratica di una sola pratica, quale appunto lo zazen, equivale ad ogni altra pratica autentica, allora la verifica dell’autenticità del nostro procedere su questa via invisibile e chiara, può essere compiuta anche attraverso la testimonianza degli appartenenti ad altre scuole, altre correnti, i quali abbiano autenticamente dedicato, gettato la propria vita dentro all’imprevedibile buco nero in cui consiste qualsiasi autentica e verificata pratica buddista.
La casistica certa è tale che, se la nostra esperienza è eccentrica, se non “vediamo” lo stesso panorama che è descritto da chi è già passato su questo sentiero, non vi è alcuno spazio per nasconderci dietro a pretese unicità o genialità inedite: semplicemente dobbiamo ricominciare tutto da capo.

Note:
1) Dico “normale” perché sono pochi oggi, come sono stati sempre pochi in passato, coloro che dedicano tutta la vita a questa pratica con la serietà e la dedizione necessarie ad imparare.

2) Vi sono vari esercizi che si possono compiere per aiutarci a raggiungere una corretta posizione seduta, per es. cfr. http://www.zencenterofdenver.org/GettingStarted/zazenstretches.html

3) Attualmente in Pakistan.

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