* Nihonkyō, la religione della giapponesità

Il tema proposto da Paolo è interessante e complesso. Prima o poi occorrerà occuparsene in modo sistematico perché le implicazioni particolari (influenza diretta sul buddismo giapponese e perciò anche sullo Zen) e generali (concetto di religione) sono tutte in gioco ed hanno una valenza che non deve essere ignorata. Tuttavia da diverse, ma strette, angolature ci siamo già occupati del tema, per esempio in:

– Eihei Dōgen, Il cammino religioso-Bendōwa, a c. de La Stella del Mattino, Marietti, Genova 1992 p. 69 ss.
– M.Y.M, Piccola guida al buddismo zen, Marietti, Genova 2000, p. 135 ss., p. 169.
– M.Y.M., La via maestra, Marietti, Genova-Milano 2005, p. 62 ss., p. 114 ss.
– M.Y.M., Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. L’India e cenni sul Tibet, Marietti, Genova-Milano 2006, p. 186 ss.
– M.Y.M., Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. La Cina, Marietti, Genova-Milano 2009.

Vi sono poi testi che hanno affrontato a fondo il problema sebbene senza abbracciarne tutte le implicazioni, mi riferisco a:

– Bhikkhu Satori Bhante, Shintoismo, Rizzoli, Milano, 1997.
– Brian Daizen Victoria, Lo zen alla guerra, Ed. Sensibili alle foglie, Dogliani (CN), 2001.

In modo più esteso ma meno specifico è interessante:

– Massimo Raveri, Itinerari nel sacro. L’esperienza religiosa giapponese, Cafoscarina, Venezia 1984.

Tempo addietro ho letto un testo pubblicato in America (Pruning the Bodhi tree, The storm over critical Buddhism, J. Hubbard & P.L. Swanson, University of Hawai’i Press, Honolulu 1997) che tratta il problema del buddismo giapponese mettendo in evidenza i legami di buona parte di esso con la religione della giapponesità, Nihonkyo o Nihonkyō, con analisi filosofiche e dottrinali esaustivamente svolte. Tuttavia, a parte la difficoltà di reperirlo, il testo è di lettura veramente ardua.

Nello scrivere il commento al film L’Arpa Birmana ho usato il termine religione in modo ampio ma non generico. Estendendo il concetto a un ideale ultraumano per il quale l’uomo è disposto in certi casi (certi uomini sempre) a mettere a repentaglio la vita. Sia in senso tragico, come il drappello di soldati che va incontro a morte certa per mantenere alto l’onore e la purezza del Giappone, sia in senso di offerta, come il soldato Nishijima, che rinuncia al bene più grande -i.e. il ritorno al corpo/gruppo/Giappone- per motivi di pietà, seppure limitata ad una etnia. Per questo oltre che di Shintō (letteralmente Via dei/del kami) si parla di Nihonkyō, perché non solo è praticabile solo dai giapponesi (o dagli assimilati, seppure in subordine) ma perché ha come indirizzo, potremmo dire idolo, il kami, lo spirito del Giappone, un’entità che si identifica con la terra, il popolo, la cultura ma anche gli usi e costumi di una sola nazione.

Si racconta che quando il buddismo fu introdotto in Tibet era comune credenza che un genio, una divinità ctonia abitasse sotto le montagne del Paese Delle Nevi ricoprendone, sotto strati di roccia, tutta l’area geografica. Il Giappone, invece, la sua terra il suo popolo la sua cultura sono la manifestazione visibile di quello che è anche chiamato lo spirito di Yamato, mitico fondatore della stirpe/etnia giapponese (di composizione genetica per nulla omogenea al suo interno), eroe sconfitto, progenitore di tutti gli eroi giapponesi. Eroi che per essere veramente tali devono morire nel compimento della loro impresa: sopravvivendo non sarebbero che degli uomini qualunque, con tutti i loro difetti (cfr. Ivan Morris, La nobiltà della sconfitta, Guanda Milano 1983. Inoltre: Donald Keene a c. di, Kenkō, momenti d’ozio, Adelphi Milano 1975, e: Vittorio Volpi, Giappone, l’identità perduta, Sperling & Kupfer, Milano 2002). Per questo si dice che, nel Paese del Sol Levante, una storia a lieto fine è quella dove il protagonista muore tragicamente.

Tutto ciò ha origini antiche ed è stato ribadito più e più volte nella ridefinizione dei miti nazionali a mano a mano che la cultura dell’arcipelago prendeva forma e si trasformava: il mito di Yamato (che risale ad età incerta ma non prima del primo secolo d.C.), all’epoca di Shōtoku Taishi (inizio settimo secolo d.C.) si affianca ai tre potentissimi kami del buddismo: buddha, dharma e sangha. Quando, all’inizio del sesto secolo, il buddismo viene introdotto dalla Corea l’imperatore coreano suggerisce al (o convince il) suo omologo giapponese che la potenza di questi tre kami era superiore a tutti gli altri e perciò, il Giappone incorporandoli sarebbe diventato ancora più potente. Nel tredicesimo secolo il monaco buddista Nichiren, fautore (inventore?) del nazionalismo messianico, quando nel 1281 un potente tifone affonda la poderosa flotta mongola già in vista delle coste meridionali del Giappone, diffonde la voce che si è trattato del kami-kaze, il vento divino o vento degli spiriti superiori, espressione dello spirito/kami di Yamato -o spirito del Giappone dal momento che Yamato o Yamatai è anche il nome antico del Giappone mentre il termine “nippon” o “nihon” deriva dal cinese Jih-pen-kuo – kami nazionale divenuto invincibile anche per merito della sua (di Nichiren, naturalmente…) predicazione del buddismo e in particolare della diffusione del Sutra del Loto. Da quel momento grazie a Nichiren, ma non solo, si diffonde la convinzione che il Grande Giappone ha una grande missione da compiere nei confronti dei popoli di tutta l’Asia e poi del mondo. Come (per ora?) sia finita la storia è testimoniato dai pochi che sono disposti a fare i conti con i massacri dell’esercito imperiale nipponico: solamente in Cina vi sono stati dieci milioni di morti tra i civili, per lo più “per rappresaglia” (cfr. Furukawa Tairyu, Franco Sottocornola, Tannisho, Incontro con il buddismo della Pura Terra, EMI, Bologna 1989 p. 31).

Certamente, considerando questi enormi disastri parlare di religione può fare accapponare la pelle. Però, allora che dire delle crociate, dell’inquisizione cristiana, delle guerre di conquista e massacro in nome dell’Islam tra il decimo ed il tredicesimo secolo, delle guerre di conquista e massacro compiute dalle truppe dei Giudei per occupare la Terra Promessa dal loro Dio, narrate dalla Bibbia e mai rinnegate e condannate?

La religione giapponese ha i suoi lati sublimi, sia in senso estetico che in senso spirituale. A mio parere, in questo L’Arpa Birmana è efficace nel darne delle coordinate abbastanza comprensibili anche per chi non ne possiede il “codice” d’accesso. Un tipo di spiritualità che ha caratteristiche tali che se non volessimo definirla “religione” ci creerebbe serie difficoltà nel trovare un termine più adatto e rischieremmo, sulla base di analoghi motivi, di non poter più definire religione tutte, o quasi, le altre religioni. E’ vero, non è una religione universale perché è riservata ai giapponesi “puri” per stirpe e per cultura (chi trascorre un periodo all’estero e ne assorbe la cultura “altra”, diviene un “apostata” anche se di famiglia giapponese), ma anche l’appartenenza al popolo eletto per gli ebrei è soprattutto un fatto di stirpe: diventare ebrei, da questo punto di vista, è quasi difficile quanto diventare giapponesi e il negare, per questo, lo status di religione all’ebraismo metterebbe in crisi la globalità del concetto stesso di religione nella cultura occidentale, considerando le conseguenze che si riverbererebbero anche sulla storia religiosa cristiana e islamica.

mym

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