* Un commento al film La Coppa, di Khyentse Norbu, 1999
Bello delicato, essenziale, quasi completamente privo di retorica. E’ un reportage molto realistico della vita di monastero di un gruppo di monaci tibetani di scuola Gelug, i “berretti gialli”, la stessa scuola cui appartiene il Dalai Lama. Due sole, piccole, critiche negative: in un’occasione si calca la mano in senso truculento per rappresentare l’invasione cinese in Tibet, «si dice che violentino le donne tibetane». Nella conversazione, che avviene tra un “traghettatore” di tibetani verso l’India e il “primo monaco”, la frase è accettabile ma stona nel complesso del film. La seconda occasione evitabile è la rappresentazione truffaldina degli indiani in generale, «mai chiedere a un indiano» si dice in una scena, culminante nella constatazione che l’indicazione ricevuta dal commerciante hindu di orientare la parabola della televisione verso nord è errata di 180 gradi: un inganno consapevole. La religiosità del luogo -un monastero buddista di monaci tibetani ospitato nel nord dell’India- come è costume della didattica buddista appare soprattutto nell’implicito: le intenzioni alle spalle delle azioni, la fiducia reciproca, l’accettazione tranquilla delle punizioni, l’amorevolezza dei gesti dei più anziani verso i più giovani. Una situazione in cui anche un ragazzo un poco discolo trova spazio e viene accolto per ciò che è nel profondo: «Sei pessimo per gli affari, sarai un buon monaco» gli dice il capo dei monaci nella penultima scena. La comunità, come ogni consesso umano, non ha nulla di ideale: vi è chi sonnecchia e tra i giovanissimi chi gioca durante le funzioni religiose, chi trasgredisce e chi si accoda alle trasgressioni. Come sa chiunque abbia vissuto in situazione analoga.
Interessante la centralità del problema legato all’uso del denaro, una caratteristica esplicita che è marcatamente del buddismo tibetano più che di quello estremo orientale o del Sud Est Asiatico; non so se tale peculiarità –l’attenzione al potere del denaro- sia un’eredità di provenienza indiana entrata nella cultura buddista tibetana o una specificità di quest’ultima. Al termine il regista non resiste alla tentazione di dare anche un insegnamento esplicito e ricorre all’indicazione eticamente più forte del buddismo: dissolvere l’odio dai nostri cuori dissolvendo così ogni tipo di nemici. L’ultima sequenza è dedicata, in modo misurato e accorto, al rammarico per la perdita dell’indipendenza del Tibet.
La visione del film ha fortemente risvegliato in me un ricordo personale: nel 1982 mi trovavo, assieme ad altri cinque italiani, nel monastero Antaiji, un eremo situato sulle montagne del Giappone centro occidentale. Sapevamo (proprio come nel film era difficile stabilire come fosse giunta la notizia) che di lì a pochi giorni ci sarebbe stata la finale del campionato del mondo e che l’Italia era in finale. Non avevamo un televisore a disposizione. Per di più il giorno della finale coincideva con l’ultimo giorno del secondo ritiro del mese. Ci eravamo rassegnati a rinunciare: se almeno fosse stato un giorno normale si sarebbe potuta tentare una sortita al villaggio in fondo alla valle, ma il ritiro era inamovibile e aveva tempi tassativi: zazen dalle quattro del mattino alle nove di sera nei giorni “normali”, sino alle 17 l’ultimo giorno; e la partita, per effetto del combinato tra fusi orari e ora legale, era alle 14.
Il ritiro iniziò e si svolse con un pensiero in più da vedere andare e venire in tutto quel silenzio immobile. Venne l’ultimo giorno, il pasto di mezzo si consumava alle dodici, al suo termine il primo monaco comunicò che su indicazione dell’abate il ritiro era terminato e che alle 14, chi voleva, poteva trovarsi nella sala comune per vedere la finale dei mondiali di calcio con il televisore messo a disposizione dall’abate. Quell’anno l’Italia vinse la Coppa.
One Response to “La Coppa”
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Aprile 11th, 2009 at 8:22 am
Mi è piaciuto molto questo commento. Mi ha dato l’impressione di un racconto elicoidale, dove dimensione profonda e quotidianità si intrecciano in piena armonia.