Le parole non sono colori
La prima frase di Shōji dice: «Shōji no naka ni hotoke areba shōji nashi. Mata iwaku, shōji no naka ni hotoke nakereba shōji ni madowazu»(5). Poco oltre troviamo: «Tada shōji sunawachi nehan to kokoroete»(6). Il primo brano, tenendo conto che gli ideogrammi non sono né sostantivo né verbo né aggettivo e possono assolvere a tutte quelle funzioni, lo traduciamo con: «Quando nella vita e morte c’è Buddha, vita e morte non c’è. E’ detto inoltre: quando nella vita e morte non c’è Buddha, non ci si inganna riguardo a vita e morte». Traduciamo anche la seconda frase: «Comprendete con chiarezza: vita e morte, il nostro nirvāņa».
Quasi tutte le frasi chiave di questo componimento di Dōgen sono facilmente identificabili con altrettante affermazioni presenti nella Madhyamakakārikā, Le stanze del cammino di mezzo di Nāgārjuna(7). Ho scelto in particolare i brani di cui sopra perché oltre alla loro presenza nell’opera del patriarca indiano che ne assicura una tracciatura tradizionale, hanno anche un’altra caratteristica, a dir poco inusuale.
Shōji è la lettura giapponese degli ideogrammi di una delle tre traduzioni cinesi del termine sanscrito samsāra, ed è una traduzione per noi interessante perché non traduce la parola samsāra(8) in modo letterale ma ne traduce il significato dinamico, legato alla nostra propria esperienza vitale: indica le circostanze comprese nel nascere, vivere, morire privi di ogni chiarezza anche solo su che cosa ci stia accadendo mentre tutto ciò accade. In balia delle circostanze ingarbugliate dall’inseguire gli oggetti dei desideri.
Dōgen riprende (lo dice lui stesso nel testo) la prima frase da un episodio narrato nel Jingde Chuangden-lu(9), La raccolta della trasmissione della lampada (o: della luce) dell’era Jingde. Tuttavia in quell’opera le due proposizioni che compongono la frase hanno un senso apparente diametralmente opposto a quello riportato da Dōgen, infatti le troviamo così: «Se non c’è Buddha nella vita e morte, non c’è né vita né morte» e: «Buddha nella vita e morte significa non illudersi riguardo a vita e morte». Vedremo subito come, per quanto strano(10), le due versioni benché opposte siano equivalenti, ma il punto che voglio sottolineare è che ciò che le unifica è pratītyasamutpāda(11). In particolare nei termini espressi da Nāgārjuna in Madhyamakakārikā 22.16: «Quale la natura propria del Tathāgata [un epiteto del Buddha], tale la natura propria di questo mondo. Ma il Tathāgata è privo di natura propria: privo di natura propria è questo mondo»(12).
La soluzione della strana situazione in cui le parole sono “vere” (oppure dicono la stessa cosa) sia quando affermano sia quando negano la stessa “cosa”, è simile alla soluzione del quesito matematico implicito alla dimostrazione che uno è uguale a due(13). Qualunque studente di matematica un poco accorto è in grado di bocciare questa dimostrazione in grazia della regola per cui “è vietato dividere per zero”. Ma noi non trattiamo di matematica, perciò non siamo tenuti ad applicare questa regola.
Note:
5) 生死 の 中に 佛あれば 生死なし。又云く、生死の 中に 佛なければ 生死に まどわず.
6) ただ 生死すなわち 涅槃とこころえて.
7) Cfr. La rivelazione del Buddha, vol. II: Il grande veicolo, a c. di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2004, 585 ss.
8) Il senso letterale di “samśāra” è “cerchio/circolo” (sam) e “volgersi/girare attorno” (sar). La traduzione cinese letterale del termine è lunhui (輪廻) in giapponese pronunciato rinne.  A volte vengono usate le due traduzioni assieme shengsi lunhui (in giapp. shōji rinne ) unendo il senso letterale a quello dinamico.

9) Più noto con il titolo letto in giapponese, Keitoku Dentōroku, compilato nel 1004 da un monaco della scuola Fayan (Hōgen in giapp.), una delle cinque scuole del Chan. Contiene detti e aneddoti relativi a 1700 monaci delle scuole Chan.
10) Ho già trattato altrove, cfr. M. Y. Marassi, La via maestra, Marietti, Genova-Milano 2005, 34 ss., il non problema delle affermazioni apparentemente divergenti, sostanzialmente armoniche.
11) Solitamente tradotto con “genesi interdipendente”, “coproduzione condizionata”. Letteralmente pratītya significa “andando verso”, “nella funzione di”, e samutpāda “originazione mutuale”, “germogliare assieme”. Cfr. M.Y.Marassi, Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. L’India e cenni sul Tibet, Marietti 2006, 161 s., 164 ss.
12) Cfr. La rivelazione del Buddha, vol. II, cit., 630.
13) 1=A=B. Da cui: A2=AB. Segue che: A2-B2=AB-B2. Scomponendo: (A-B)(A+B)=B(A-B). Semplificando: A+B=B cioè 2=1. La semplificazione è errata perché A-B=0.

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