L’invenzione di “zero”
Quando Nagarjuna dice: «Quale la natura propria del Buddha, tale la natura propria di questo mondo (A=B). Ma il Buddha è privo di natura propria (A=0): privo di natura propria è questo mondo (B=0)» è come se con la seconda proposizione “dividesse per zero” la prima. “Privo di natura propria” è la traduzione italiana del sanscrito svabhāvaśūnyatā, dove svabhāva sta per “natura/essenza/esistenza intrinseca/inerente” e śūnyatā per “vuotezza/vacuità”. Śūnyatā è la sostantivazione di śūnya che, oltre che vuoto, significa anche “zero” e ne è l’origine etima(14). In questo caso, Buddha è l’esistenza consapevolmente vuota. È qualcosa ma contemporaneamente è zero.
Siccome il buddismo, e in particolare il buddismo di Nāgārjuna non compone teorie pindariche ma parla di me e della mia vita, dobbiamo mettere noi stessi in tutto il processo. Avremo così che: «Quando sono nella vita e morte (samsāra) percependo (manasikāra) intimamente il miracoloso vuoto apparire (pratītyasamutpāda) di ogni cosa, non c’è vivere, nascere, soffrire, morire (perché il soggetto di tali verbi vive come forma vuota). Se nel vivere, nel nascere, nel soffrire, nel morire (nel samsāra), mi identifico con vuotezza/śūnyatā (ovvero: non c’è Buddha perché inteso come il vuoto della forma), non mi inganno (dove non c’è che zero, vuoto non c’è luogo per illusioni e inganni) a proposito del vivere, nascere, soffrire, morire».
Allo stesso modo possono essere rielaborate le due frasi originali: «Se non c’è Buddha nella vita e morte, non c’è né vita né morte» e: «Buddha nella vita e morte significa non illudersi riguardo a vita e morte». Perché quale è la valenza intrinseca di Buddha tale è questo mondo. Se Buddha non esiste perché percepiamo l’assenza di vita, natura propria, allora è così per il tutto e per ciascuna cosa. Se Buddha vive o esiste pur nello strano modo di tutta la realtà, allora tutto esiste.
Per completezza notiamo che, sempre seguendo la falsariga di: «Quale la natura propria del Buddha, tale la natura propria di questo mondo» hanno un senso compiuto anche le frasi: «Se c’è Buddha nella vita e morte, c’è vita e c’è morte» e: «Buddha nella vita e morte significa illudersi riguardo a vita e morte». In questo caso Buddha c’è, ovvero è quando mi auto-attribuisco esistenza/vita propria, autonoma, mi ritengo una forma piena. E allora sono in quel vagare senza uscita detto samsāra. È il caso in cui il senso di “Buddha” è lo stesso usato nell’espressione “se incontri il Buddha uccidilo”.
L’utilità pratica e operativa di tali difficili considerazioni, utilità di estrema importanza per noi che usiamo la vita nel tentare di seguire le tracce di quegli antichi, viene poi suggellato dalla frase di Dōgen: «Comprendete con chiarezza: vita e morte, il nostro nirvāņa». Che ricalca le stanze 19 e 20 del capitolo 25 della Madhyamakakārikā: «19: tra l’esistenza fenomenica (samsāra/shōji) e il nirvana non c’è la più piccola differenza. Tra il nirvana e l’esistenza fenomenica non c’è la più piccola differenza. 20: quello che è il confine del nirvana, questo è anche il confine dell’esistenza fenomenica. Tra essi due non c’è neppure la minima differenza»(15).
Abbiamo già trattato(16) il come e il perché inferno e paradiso, nirvana e questo mondo siano uguali e radicalmente diversi, ora invece l’importanza del discorso verte sul fatto che gli “occhiali” che usava Dōgen per leggere il buddismo –necessari anche per comprendere il suo fraseggio- sono lo stesso insegnamento di Śākyamuni e Nāgārjuna e si sovrappongono proprio sulla base di pratītyasamutpāda. Come recita uno dei più antichi sūtra, il Śālistambasūtra, Il discorso della pianticella di riso: «Una volta, o Maitreya, il Beato, vedendo una pianticella di riso, fece il seguente discorso ai monaci: “Chi, o monaci, vede la pratītyasamutpāda vede il dharma, colui che vede il dharma vede il Buddha”»17.
Dōgen si trovava lontano e separato dal buddismo indiano: era nell’impossibilità di attingere direttamente alla fonte, ne aveva solo una descrizione nelle testimonianze dei patriarchi e dei traduttori cinesi. Ma, e questo è fondamentale, aveva praticato con estrema dedizione lo zazen appreso e orientato dall’insegnamento ricevuto in Cina da Tiantong Rujing, un terminale della trasmissione del Chan/Dhyāna del Buddha, l’arte di scomparire, vivendo nell’intimo modo della vita. La pratica assidua del corretto modo di fare zazen, ovvero lo stesso yoga/dhyāna/Chan/Zen praticato dal Buddha sotto l’albero del risveglio, lo pose in grado di vedere oltre i testi e di riconoscere, tra le decine di dottrine presentate come se ciascuna di esse fosse la base di tutto, proprio l’insegnamento detto pratītyasamutpāda, l’unico in armonia con la profonda conoscenza di sé. Un insegnamento che continua ad essere la trama di ogni buddismo, una trama completata nell’ordito dal vivere quotidiano secondo āhimsa/maitrī/in-nocenza/amore-fraterno, sulla base della pratica quotidiana dello zazen.
Note:
14) Cfr. M.Y.M, Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. India e cenni sul Tibet, cit., 165 s.
15) Cfr. La rivelazione del Buddha, vol. II, cit., 639.
16) Cfr. M.Y.M, Il buddismo mahāyāna attraverso i luoghi, i tempi e le culture. India e cenni sul Tibet, cit., 39, 62 s., 130, 179 s., 183, 221.
17) La medesima frase compare in altri componimenti. Ivi, 162.

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