Lettera di Roberto Poveda

Caro Stefano,
Non ti preoccupare, non mi hai assolutamente creato problemi. Sono molto interessato alla esperienza di Rovofiorito non solo da un punto di vista personale, ma anche strutturalmente,perché credo che questo modello sia possibile, in questo tempo e in questo luogo, per noi che mentre tentiamo di seguire nelle nostre vite la proposta dello Zen, allo stesso tempo riflettiamo su come questo può svilupparsi in occidente, ma ci troviamo, in qualche modo, orfani, di riferimenti validi.
Ce li dobbiamo quindi inventare da zero.In ogni modo, rispetto ai “tutti” di cui parlavi nella tua ultima lettera, [non avendo la lettera il riferimento non è molto chiaro] e alla non ricerca di una figura paterna, ecc., non sono così sicuro, in alcuni casi può essere così, in altri, non lo so.
Mi sembra di percepire diversi livelli di adesione, o forse diversi livelli di entusiasmo rispetto all’iniziativa. E’ certo che lì eravamo tutti laici, e che probabilmente la vita di un laico è soggetta a più imprevisti di quella di un monaco. Ma nonostante questo, dato che le sesshin sono comunicate con mesi d’anticipo, non si capisce molto bene come non ci si possa organizzare, annotando nelle proprie agende, i giorni precisi per una pratica che è centrale per chi davvero vuole percorrere questo cammino [ non si può dare per scontato per tutti i ‘praticanti’ il livello di centralità della pratica nella propria vita – nota mia].
E non credo che questo si debba solo a una mancanza di organizzazione fra le persone.
Rispetto a Rovofiorito mi vengono alcune riflessioni:
(Continua).

Come fare affinché il silenzio parli e la calma proceda?

di Roberto Poveda (traduzione dallo spagnolo di Samira)

Un paio di anni fa tradussi dal francese allo spagnolo un testo di un monaco zen giapponese sfortunatameente poco tradotto nella mia lingua, Kōshō Uchiyama. Il testo si intitolava “Sesshin senza giochi” e descriveva il modo in cui si praticavano, e si praticano tutt’ora, le sesshin, ossia i ritiri per la pratica di zazen ad Antajii, un piccolo monastero soto zen giapponese nel quale Uchiyama ricopriva la carica di abate. Non ero particolarmente interessato al Giappone, le cui forme mi sono estranee, né alla vita monastica, ma la forza, la radicalità e la purezza della proposta di Uchiyama mi avevano commosso profondamente. Nella sua proposta c’era qualcosa che trascendeva qualsiasi ambito culturale o geografico concreto. Quello che lui dice, sebbene sia espresso attraverso una forma e per un ambito concreti, va ben oltre qualsiasi forma o qualsisasi ambito, monastico o laico, orientale o occidentale; perché esprime un atteggiamento sincero e profondo verso lo zazen, inteso come un modo di orientare la propria vita.

Innanzi tutto, Uchiyama eliminava dalle sesshin qualunque elemento superfluo; eliminava la recitazione dei sutra, il lavoro, eliminava qualunque tipo di insegnamento orale, eliminava l’uso del kuosaku, il bastone tradizionale usato per correggere la postura e stimolare i partecipanti, in partica eliminava quasi tutto meno lo zazen; qualcosa da mangiare, poche ore di sonno e qualche minuto per le proprie necessità personali. Vale a dire, lo zazen in mezzo alla propria vita nuda (senza giocattoli), entrambi espressi nel modo più semplice e funzionale possibile.

In secondo luogo, e questo gesto, apparentemente minimo, però altamente simbolico, credo che sia quello che faccia la differenza, Uchiyama, l’abate di quel monastero, si sedeva, il viso rivolto verso il muro, come il resto dei praticanti. In questo modo, eliminando a priori qualsiasi asimmetria fra osservatore e osservato, tra insegnante e alunno (o maestro e discepolo, se si preferisce questa terminologia), tra realizzazione e dottrina, riconsegnava la responsabilità del proprio zazen a ciascun praticante, alla realtà di ciascuno, vale a dire all’unica persona veramente capace di realizzare il suo zazen, così come di vivere la sua vita.

Un po’ di tempo dopo lessi il suo testamento spirituale, il discorso di commiato che diede quando laasciò la carica di abate di Antajii; un gesto carico anche di un profondo significato simbolico e spirituale. Un gesto, d’altra parte, insolito, sia qui in Occidente come in Oriente, dove nessuno, una volta ottenuto l’”incarico” si dimette. In questo testo dice:

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