(Universalità del buddismo)

A scanso di equivoci: le mie parole non vogliono essere una critica allo zen di Dōgen, piuttosto dissento dall’esportare una forma -in cui il buddismo si è legittimamente inculturato in un Paese- fuori dal suo spazio/tempo vita, come se la forma stessa fosse l’universale. Dōgen era cosciente che l’etica confuciana non è sufficiente a porci e a mantenerci in sintonia con la parte divina del nostro spirito perché quell’etica attiene all’etica di relazione, riguarda il comportamento esteriore: “soto shitagau” (外従う) significa “fuori, nelle circostanze esteriori, assecondare, obbedire” (33). Il reale intendimento di Dōgen lo si vede chiaramente nel Tenzo Kyōkun dove si raccomanda che ben tre attitudini (34) amorevoli diano forma a tutta la nostra esistenza. Applicabili sia quando è opportuno assecondare obbedendo, oppure ribellarsi o invece comandare.

Neppure intendo dire che essendo il buddismo un “affare” indiano siano le categorie di quella cultura a dover essere utilizzate per contenerlo. Non è così: il buddismo si qualifica subito come paţisotagāmin (35) “[che] va controcorrente” ed è tale sia nel suo significato più profondo, ovvero “che non segue lo scorrere senza meta (samsāra)” (36), sia in senso macroscopico: “che è sempre straniero, estraneo rispetto ad ogni modo di pensare” (37). Non appartiene quindi ad alcuna cultura: anche in India si è dovuto inculturare ed ha impiegato più di trecento anni per riuscirci. Poco meno di quanti ne ha impiegati in Cina.

V) Zazen non basta allo zazen

Universalità” nuda non esiste, anche quando appare come “buddismo” può vivere, manifestarsi solo nei panni di una cultura: quella all’interno della quale è (ri)nata in quel momento. E in quel modo, in quel luogo in quel momento, benché particolare, è davvero universale. Ma se, prendendo a motivo il fatto che la forma culturale in cui in quel momento l’infinito si manifesta è autentica e buona, noi cerchiamo di trapiantarla, di farla vivere dove ci sono un’altra sensibilità e un’altra cultura, ecco che quello che a casa sua era autenticamente zen ora non lo è più: è un teatrino etnico privo di vita religiosa, privo proprio di universalità.Non mi riferisco solo alle performances della cerimonia del the presentate come “forma dello zen”, all’arredamento orientaleggiante dei luoghi di pratica o all’uso continuo e un poco ridicolo di termini giapponesi o cinesi in contesti occidentali che stridono completamente con quei comportamenti, ma anche alla parte più profonda del “discorso”. Nel tessuto culturale occidentale che ha fatto dell’autonomia di scelta, della ricerca di ogni segnale della propria unicità come persona, del concetto stesso di “persona” (38) la norma del proprio procedere, proporre l’obbedienza remissiva e la conformità quale perfetta e dogmatica incarnazione del vuoto della posizione di mezzo è il contrario dell’inculturazione, è creare presupposti affinché invece del buddismo -ovvero dell’universalità- si accolga una proposta culturale specifica, estranea al contesto in cui si intende impiantarla. Nel lungo periodo, allo spegnersi degli entusiasmi esterofili, fanno seguito rigetto e noia.

L’universalità è presente nella continua ridefinizione di sé stessa, nella possibilità di rinascere in ogni persona che cominci a viverla o, più in generale, come (ri)scoperta in ogni generazione, reinterpretata ex novo in ogni cultura. L’opposto di “universalità” è imitazione e adozione di forme scolastiche, ortodosse. Quando ogni uomo, ogni generazione, ogni cultura può avere il proprio buddismo e, insieme, nessuno esclude gli altri, ovvero quando ogni montagna è visibile dalle altre, allora si può parlare di universalità del buddismo.

A fronte di espressioni forti quali “zazen shitara oshimai!” (39), occorre indicare con altrettanta decisione gli altri due aspetti del tentativo umano di tuffarsi nell’universale: la conoscenza del vuoto di sé, condizione di impermanenza per cui la scomparsa del mondo nel mondo lascia che il mondo coincida col nirvāņa. Assieme ad un’etica morale che sia la costruzione di una realtà vitale della stessa sostanza del mondo alla scomparsa del mondo: “Si deve essere rapidi nel bene, dal male si deve ritrarre la mente. Infatti, se un uomo compie il bene in ritardo, la sua mente si diletta nel male” (40).

Altrimenti, anche se “la giusta comunicazione della vera realtà da un buddha ad un altro buddha, da un patriarca ad un patriarca è sempre stata soltanto zazen” e “lo zazen stesso è la forma del risveglio” (41), lo zazen rischia di essere una tecnica di rilassamento psicofisico o uno strumento in mano a chi intenda diventare qualcuno o sembrare qualcosa.

Note:

33) Non credo che, in questo caso, con quell’espressione Dōgen intendesse dire “adàttati alle circostanze: obbedisci quando è il caso, ribellati distinguiti quando è il caso”. La spiegazione che lui stesso offre è infatti: “Gesō wa tani shitagai (外相は 他に従い)” ovvero: “Nella vita esteriore, segui (obbedisci a) gli altri” (Shōbōgenzō Zuimonki 2-10).

34) “Rōshin” 老心, “kishin” 喜心, “daishin” 大心, ovvero: “cuore paterno (materno)”, “cuore gioioso”, “cuore magnanimo”. Cfr. E. Dōgen, La Cucina Scuola Della Via, a c. di J.Forzani e L.Mazzocchi, EDB, Bologna 1998, 44 ss.

35) Cfr. Khuddakanikāya, 4: Itivuttaka IV. 10 (109) dove paţisotagāmin è usato addirittura come sinonimo di nekkamma/naishkramya ovvero il “lasciar andare” che costituisce l’intimità dello star seduti. Cfr. anche J.Hubbard & P.L.Swanson, Pruning the Bodhi Tree, University of Hawai’i Press, Honolulu 1997, 94.
36) Anche nel senso di “non segue il flusso dei pensieri e dei desideri”.
37) L’affermazione “anātman”, scandalosa in quel contesto, è il segno più forte di questo andare controcorrente.

38) Termine praticamente intraducibile nella maggior parte delle lingue dell’Estremo Oriente.
39) “Fare zazen è tutto”. Cfr. n.20.
40) Dhammapada, 116.
41) Eihei Kōroku, sezione IV.

Mauricio Yūshin Marassi

Terza parte

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2 Responses to “Quarta parte”

  1. filippo.monno Says:

    Fondamentale il concetto di impermanenza da dove nasce automaticamente, dopo aver interiorizzato quest’ultimo, il concetto di non attaccamento. Se sappiamo che tutto il mondo che ci circonda è precario è da stupidi attaccarsi alle cose o no?
    Ed è solo quando non vi è più attaccamento che si genera il vuoto in se stessi, da dove non può che nascere Amore verso tutto e tutti.
    Condivido pienamente infine l’ultima frase relativa allo zazen che rischia di essere uno strumento col fine di far diventare qualcuno o sembrare qualcosa: la stessa meditazione può indurre a creare falsi obiettivi e quindi false identità.
    Complimenti per l’autenticità.

  2. mym Says:

    A mio avviso (anche se so che specie nel b. vajrayana le posizioni divergono su questo punto) dal vuoto di sé non è detto che automaticamente nasca amore universale. La via mentale all’amore è piena di ostacoli. Anche in questo occorre coltivare il terreno e il buon concime è ancora sīla.

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