Socrate, chi era costui?

Il filosofo il cui nome è conosciuto anche fuori dall’ambito dei cultori del mondo greco, è il medesimo che da quello stesso mondo non ha voluto lasciarci nessuna testimonianza autografa della sua attività, dei suoi metodi, dei suoi propositi: infatti – lo ricaviamo dalle testimonianze -, certo che ognuno abbia in sé la verità e che possa conoscerla non dalle parole di altri ma solo indagandola in sé, non proponeva ai suoi discepoli certezze né punti di arrivo ma soltanto esempi di un metodo d’indagine, ossia li conduceva, rivolgendo loro le opportune domande, a portare alla luce della coscienza ciò che ognuno di loro senza saperlo sapeva già. Ebbe però la ventura di annoverare, tra i suoi discepoli, Platone il quale, invece, scrisse molto, divergendo già in questo dall’insegnamento il cui punto chiave è che la Verità non può essere offerta a nessuno dall’esterno, in un sistema precostituito onnicomprensivo, ma deve essere raggiunta da ciascuno attraverso lo sforzo dell’indagine personale. Il grande discepolo intitolò la prima fase dello sviluppo del proprio pensiero al maestro, l’interlocutore principale dei “Dialoghi” platonici attraverso i quali si delineano, presumibilmente, i caratteri e gli argomenti dell’insegnamento impartito da Socrate ai giovani Ateniesi che gli erano affidati o che spontaneamente si recavano presso di lui per imparare le virtù che fanno di un essere umano un uomo e un cittadino.
Presumibilmente, ho scritto: non sappiamo infatti se, o in che misura, il pensiero dello scrittore si sovrapponga o si sostituisca a quello del maestro. E’ vero che soltanto i Dialoghi platonici della prima fase sono “socratici”, hanno cioè Socrate come protagonista da cui viene l’origine, lo stimolo e la guida della discussione sui vari temi trattati: ciò induce a pensare ragionevolmente che lo scrittore, quando si rese conto e volle procedere al di fuori dell’insegnamento ricevuto, smise di far esporre al maestro quello che sapeva essere ormai il proprio pensiero e perciò, là dove parla Socrate, è il Socrate vero a parlare. Ma anche così le incertezze restano: infatti chiunque riferisca “fedelmente”, in perfetta buona fede, ciò che ha sentito da un altro, riferisce in realtà ciò che, di quanto ha sentito, egli stesso ha recepito e, più o meno consapevolmente, elaborato. A questa norma di carattere generale non si sottrae nessun essere pensante: potrebbe farlo un registratore meccanico ma, nella Grecia del V/IV secolo a.C., tale strumento era poco usato… Tuttavia il Socrate di Platone è l’unico che possiamo conoscere: poco o niente aggiungono o cambiano rispetto a questa figura le testimonianze di altri suoi discepoli, tra cui lo storico Senofonte, i quali mancano non solo della ricchezza speculativa di Platone, ma anche della struttura mentale capace di recepire appieno un insegnamento di non comune livello. Ma in fin dei conti, che vogliamo, o no, fidarci di Platone e ricostruire, o no, un Socrate “storico” le cui caratteristiche siano quelle emergenti dai Dialoghi, poco importa: l’efficacia del maestro è comprovata, più che dalle sue parole, dal segno che ha lasciato in chi lo ha ascoltato ed è avanzato sulla strada indicata da lui.
Ora questo Socrate platonico ci parla a lungo di sé nella ”Apologia” con cui, accusato di empietà e corruzione dei giovani, si difende davanti ai giudici e al popolo ateniese che assiste in massa al processo; e dobbiamo presumere, anche qui limitarci a presumere, che parli di sé con piena consapevolezza colui che ha posto come base, apice, somma di tutta la propria etica l’imperativo dell’oracolo delfico “gnothi sautòn”, conosci te stesso; colui del quale, sempre secondo lo stesso oracolo delfico, nessuno fu più sapiente. Proprio da quest’affermazione dell’oracolo prende il via Socrate per la propria autodifesa, raccontando così i fatti:
“…Io dunque, quando mi fu riferita la notizia, ragionai press’a poco così: “Cosa vuol concludere il Dio? E cosa nasconde sotto queste parole oscure? Intanto, è un fatto, non ho la minima coscienza d’essere un sapiente. E allora, perché dice che sono il più sapiente? Certo, non vi è menzogna nel suo dire. A lui non è concessa menzogna!”. E per molto tempo non sapevo capire quale fosse il senso delle sue parole. Finalmente m’accinsi a fare una verifica di questa sentenza. Quella che vi dirò adesso. Mi recai da un personaggio in fama di grande sapienza. Avevo in animo, se pur possibile, di mostrare falso il mio vaticinio e di far vedere all’oracolo: ”Quest’uomo è più sapiente di me; e tu dicevi che sono il più sapiente di tutti.”. Sottoposi dunque il mio personaggio (non c’è bisogno che vi dica il nome; era un uomo politico) a una specie di prova. Appunto durante questa prova, cittadini ateniesi, ho avuto una strana esperienza. Cominciai dunque a conversare con lui… insomma arrivai alla conclusione che quell’uomo credeva d’essere un sapiente e ne era convintissimo. Ma in realtà sapiente non era per nulla. E allora cercai di mostrargli che lui credeva d’essere sapiente, ma di fatto non lo era. Da quel momento ebbero origine inimicizie d’ogni genere…” (Apologia 21 b, c, d1)
Si reca allora presso altri in fama di sapienza: i poeti, gli oratori, gli artefici. Ne ricava la stessa perplessità:
“Ciascuno sapeva bene la sua arte, e ciascuno pretendeva per questo d’essere un gran sapiente anche nelle altre discipline. E quest’errore finiva per oscurare le cose che veramente sapevano”. (Apol. 22 d, 7/11)
Quindi la conclusione:
“Quanti ebbero modo d’assistere alle mie inchieste, finirono per convincersi che sono un sapiente su quegli argomenti per mezzo dei quali dimostro agli altri la loro ignoranza. Mentre è un fatto, o cittadini, Dio solo davvero è sapiente. E con questo suo oracolo egli vuol dire una cosa di questo genere: l’umana sapienza ha poco valore, anzi, non ha valore alcuno. E Dio ha sì accennato a questo Socrate, ma s’è servito soltanto del suo nome e si è servito di lui come di un esempio. Supponete una cosa di questo genere: Il più sapiente, o uomini, è chi, come Socrate, sa bene di non contare nulla in confronto a sapienza!”. (Apol. 23 a, b1/3).
Certamente un personaggio scomodo. Così “questa gente convinta di sapere qualcosa e che invece poco o nulla sa” (23 c 8/9), vedendo il proprio prestigio minacciato non solo da Socrate ma anche dai giovani che seguono e ascoltano le sue inchieste, concepisce nei suoi confronti un’avversione che si concretizza nell’accusa di corruzione. E tuttavia oggi, a quasi 2400 anni di distanza, possiamo vedere qualcosa di meno meschino sotto agli intrighi di tale gente. Infatti Atene, uscita a pezzi dalla guerra contro Sparta – la guerra terminò nel 404 a.C., il processo a Socrate si celebrò nel 399 – e costretta dal trattato di pace a subire il controllo politico della rivale in casa propria, riuscita ora infine a liberarsene e ristabilita la democrazia, ha bisogno di tutte le forze attive per ricostruire almeno in parte lo splendore del secolo precedente. Un tale che, come fa Socrate, insegna a discutere su tutto, a non accettare tranquillamente il principio di autorità, a porsi problematicamente in ogni situazione, può apparire quanto di più dannoso per uno stato che necessita di certezze in base alle quali agire con energia. Gli avversari, alcuni dei quali ricoprono cariche pubbliche, sono cittadini in vista cui non mancano i mezzi per condurre il filosofo davanti ai giudici ed essi, a loro volta avvertendo il proprio prestigio messo a rischio anche dal tono con cui Socrate si difende, non quello di un colpevole che si riconosce tale e chiede clemenza, ma di un giusto che sostiene la propria dirittura morale prendendosi gioco della piccineria degli accusatori, accolgono le accuse e lo condannano a morte. Egli si avvia serenamente alla fine accomiatandosi dai giudici, dal popolo di Atene, dai suoi fedeli:
“Ma ormai è tempo di andare via. Io vado a morire; voi continuerete a vivere. Chi di noi si volga verso migliore sorte, è oscuro a tutti, meno che a Dio.”(Apol. 42).

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