Gli dei falsi e bugiardi

Gli dei della Grecia sono stati così qualificati da Dante, in un’epoca in cui il concetto di dialogo interreligioso era di là da venire e, nell’ipotesi irreale che a qualcuno fosse venuta la fantasia di proporlo, costui sarebbe stato bruciato sul rogo come eretico.

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La chiesa di Roma era la sola detentrice dell’unica verità, in campo religioso e non solo: i dettami di essa informavano tutti gli aspetti della vita pubblica e privata, dai princìpi cui doveva attenersi l’imperatore fino ai piccoli gesti della quotidianità di ognuno. Mancava nel Medioevo la prospettiva storica – che è una scoperta del Romanticismo e quindi posteriore di molti secoli –, quindi ciò che era vero, giusto, buono in quel momento doveva essere ugualmente vero, giusto, buono in qualsiasi epoca passata e futura e forniva l’unico metro di valutazione di ogni fatto umano. Mancava altresì la prospettiva spaziale, quindi le culture “diverse” delle quali si conoscesse l’esistenza erano inevitabilmente bollate come errate e peccaminose: si doveva per questo combatterle fino ad annientarle e farne rientrare i cultori sotto le ali dell’unica chiesa emanazione dell’unico Dio. Certo anche oggi, a chi si soffermi sugli straordinari fatti attribuiti nell’antica Grecia a dei, semidei ed eroi può sembrare perlomeno strano che uomini (1) dotati di un’intelligenza tale che permise loro di dar vita a una delle più luminose civiltà del passato potessero davvero prestare fede a quelle fantastiche quanto assurde costruzioni.

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E in realtà non siamo affatto certi che vi prestassero fede, non almeno nel modo in cui oggi intendiamo la “fede”: non solo i filosofi successivi alla sofistica, Platone e Aristotele, parlano di un principio regolatore dell’universo, theòs o noùs che sia, il quale evidentemente non ha niente a che vedere con le divinità del mito; ma ancor prima che la sofistica “picconi” (vocabolo che ha vissuto il suo tempo ma resta simpatico ed efficace) miti, superstizioni e credenze il poeta Eschilo, per fare un esempio già noto ai miei ventiquattro lettori, inizia la sua preghiera con le parole: “Zeus, chiunque egli sia…” .
La spiegazione va cercata, come sempre, nelle origini del mito e del suo trasmettersi di generazione in generazione. Nella società arcaica a struttura tribale, illetterata e perciò lontana dal saper costruire un pensiero logico e astratto sul quale costruire il proprio rapporto con la realtà, o che descriva tale rapporto già esistente, il linguaggio che procede per immagini è l’antecedente di quello filosofico accanto al quale, tuttavia, continua a sussistere anche in seguito. A tale linguaggio immaginifico e fantastico è affidato fin dall’inizio il compito di fissare i criteri del pensiero, i modelli del comportamento, le strutture sociali, i fondamenti del culto: più o meno come ancor oggi ci si serve delle favole per i primissimi insegnamenti etici ai bimbi molto piccoli. Gli aedi, uomini colti e perciò percepiti dall’ignoranza popolare come “invasati dalle muse”, diffondono nel loro girovagare questo patrimonio culturale cantando di villaggio in villaggio, di paese in paese le gesta di dei ed eroi che ne sono l’incarnazione. Certo poi su questi temi la fantasia lavora: le storie si arricchiscono, i miti si ramificano, leggende locali trovano spazio tra quelle più generali fino a confondersi con esse. Il tutto avviene attraverso la trasmissione orale, non c’è un libro sacro della religione ellenica alla quale tuttavia, dopo che fu introdotta la scrittura, in tutto ciò che ci è pervenuto, di qualsiasi genere letterario si tratti, gli autori fanno continui riferimenti come a un qualcosa di universalmente conosciuto, che non è perciò necessario spiegare né chiarire: è proprio attraverso tali riferimenti che ci è oggi possibile ricostruire le storie per intero, nel loro svolgersi dall’inizio alla conclusione attraverso il labirinto delle varianti.

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Nel procedere della civiltà, villaggi e borghi divenendo città mantengono gelosamente la propria autonomia politica e in parte quella economica; tuttavia resta radicata in ogni cittadino la consapevolezza e l’orgoglio della propria grecità, quell’essere diversi da tutti gli altri popoli definiti barbari = balbettanti, cioè che non parlano il greco; di tale grecità il mito su cui si fonda la religione è una costituente essenziale. Così tutte le poleis, in perenne attrito e spesso in guerra tra loro, nelle ricorrenze annuali o biennali o quadriennali in cui si celebra solennemente nei grandi santuari – Olimpia, Delo, Delfi, Corinto… — il dio al quale ognuno di essi è dedicato, interrompono le ostilità e partecipano assieme alle cerimonie sacre, non tanto per celebrare il dio quanto per rinnovare la memoria e rinsaldare la consapevolezza dell’origine comune. Così Socrate, un istante prima di morire, pronunciando le sue estreme parole ricorda all’amico Critone di offrire un gallo ad Asclepio, come vuole il rito (Plat. Fedone, 118 e, 10-15): fedele fino all’ultimo al culto tradizionale degli avi, perpetuatosi nella città di cui egli è cittadino e che lo ha condannato a morte.

(1) Con la designazione “uomini” non si vogliono intendere, come è (mal)costume fare, anche le donne: a parte sporadiche eccezioni relative per lo più all’età arcaica, esse hanno nel mondo ellenico un ruolo del tutto secondario, dovuto al loro essere necessarie come “fattrici” e amministratrici della vita domestica. Ci sono, è vero, le etere: colte e raffinate, conoscono la musica, la poesia e le arti ma solo in funzione del diletto che, tramite tali conoscenze, possono offrire agli uomini nei momenti di distensione dalla politica e dalla guerra. Le etere tuttavia sono escluse dalla società, non hanno neppure i diritti civili: non possono sposarsi e avere figli legittimi, né ereditare o fare testamento.

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