Il sorriso arcaico
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Il visitatore di un qualunque museo archeologico, che abbia dedicato all’interminabile serie di vasi e cocci decorati a figure nere su fondo rosso – quelli cioè risalenti alle età antecedenti il 480 a.C. – qualche minuto oltre quello strettamente necessario per un’occhiata distratta, si è forse stupito di veder sorridere le labbra di guerrieri che si affrontano in duello o di eroi che celebrano i riti funebri dei propri compagni o di atleti tesi a raggiungere la vittoria nelle gare. Lo stesso visitatore attento avrà notato che anche nella statuaria della stessa età il giovane – kouros – scolpito nella pietra colla gamba sinistra leggermente avanzata sulla destra, le braccia aderenti al corpo e i pugni chiusi, come pure la fanciulla – kore – la cui veste aderisce al corpo con una serie di pieghe verticali del tutto simili alle scanalature delle colonne del tempio, hanno sulle labbra l’identico sorriso.

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Ma quello che a noi appare come un sorriso è in realtà un’ ingenua soluzione tecnica per raffigurare su di un unico piano la curvatura delle labbra che richiederebbe, invece, l’utilizzo di piani diversi. La statua, il bassorilievo, il vaso sono pensati ed eseguiti per una visione frontale; all’artista pur ricco di vivace fantasia e creatività nonché di abilità manuale nell’utilizzare gli strumenti atti a tradurla in immagine visiva, manca tuttavia la prospettiva spaziale. Per chi si chiedesse se tale interpretazione è davvero quella corretta e non si tratti invece di una precisa scelta degli artisti, la prova a sostegno viene dal fatto che anche gli occhi sono scolpiti o dipinti allo stesso modo: difficile credere che i Greci volessero raffigurare i loro dei e i loro eroi con gli occhi a mandorla, della cui reale esistenza in altri tipi etnici verosimilmente non avevano alcuna notizia. E tuttavia è innegabile che, al di là della spiegazione tecnica, il “sorriso arcaico” sconfina in una sfera estranea alla tecnica: le figure sorridono da un loro mondo ieratico, arcano, la cui realtà è nota a loro ma infinitamente lontana, non accessibile all’osservatore ancorato al mondo concreto dell’esperienza.

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Ho indicato sopra il 480 a.C. come data conclusiva di un’epoca: quell’anno segna infatti un momento decisivo per la civiltà ellenica. Un po’ di storia. L’impero persiano, che occupava allora tutta la fascia sud-occidentale dell’Asia fino all’India, aveva mire espansionistiche sull’Occidente e il re Dario, assoggettate le colonie greche della costa asiatica – Ionia – e schiacciatene le rivolte, nel 490 aveva tentato una spedizione sul territorio greco a scopo punitivo, per l’aiuto fornito dalla madrepatria alle città ribelli. L’esercito invasore fu fermato a Maratona e costretto a ritirarsi: tuttavia in Grecia, particolarmente ad Atene, pochi si illudevano che la vicenda si fosse davvero conclusa con quello scontro; né mancavano di giungere dalla Ionia le notizie sui grandi allestimenti militari iniziati dallo stesso Dario e proseguiti, dopo la sua morte, dal figlio e successore Serse. Risale a quegli anni l’intuizione da parte di Temistocle di quella potenzialità di Atene, e l’inizio di quell’attività ad essa relativa, che nel corso del V secolo fece della città l’indiscussa e incontrastata dominatrice del mare. Lo stratego riuscì a persuadere i suoi concittadini,

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non particolarmente interessati all’attività bellica, della necessità di creare una flotta colla quale difendersi dal pericolo persiano. Tuttavia, quando Serse fu pronto a sferrare l’attacco e mosse contro la Grecia col più numeroso esercito e la più grande flotta mai visti tra Oriente e Occidente, il terrore di fronte a quello spiegamento di forze che si avvicinavano per terra e per mare indusse gli abitanti dell’Attica ad abbandonare le campagne e la città agli invasori, i quali non risparmiarono il territorio agricolo né la città che fu completamente distrutta: dalla rovina si salvarono solo le statue degli dei che gli Ateniesi avevano seppellito in una fossa sull’Acropoli prima di abbandonare la città. Tutti i cittadini in grado di combattere si erano rifugiati sulle navi che Temistocle aveva ideato e voluto e che schierò allora in assetto di guerra nello stretto di mare tra il continente e l’isola di Salamina, sfidando i nemici a raggiungerlo e a combattere lì dove le grosse e pesanti navi persiane non avrebbero avuto possibilità di manovra nello spazio angusto. E proprio lì, presso Salamina, gli Ateniesi riportarono nel 480 la vittoria che segnò il trionfo di una città su un impero e, come la sentirono e la interpretarono i protagonisti , di un pugno di uomini liberi su un informe stuolo di sudditi e schiavi, della civiltà sulla barbarie, dell’intelligenza sulla forza. Dopo questa vittoria gli altri Greci, primi fra tutti gli Spartani che, pur coraggiosi e addestrati guerrieri, erano però restii ad uscire dal loro territorio, inseguirono l’esercito che si ritirava per terra, lo sconfissero più volte in campo e ne costrinsero i resti a ripiegare in fuga

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verso i propri confini. Il trionfo sui “barbari” esaltò Atene. Già emersa di gran lunga sulle altre poleis nel secolo precedente per la ricchezza e la vivacità della sua cultura,organizzata in quanto c’era allora di più simile alla democrazia grazie a statisti come Solone e Clistene e al tiranno Pisistrato , ora anche forte militarmente e perciò sicura dagli attacchi delle poleis rivali, risorse e fiorì con uno splendore fino ad allora sconosciuto in Occidente. E l’artista che, in veste di guerriero, in battaglia aveva dominato sul barbaro, ora riesce facilmente a dominare nell’arte le tre dimensioni spaziali: nella statuaria ora quasi esclusivamente marmorea e nella pittura che, proprio per sottolineare gli spazi, ha invertito il cromatismo presentando figure rosse su fondo nero,labbra e occhi assumono la loro naturale curvatura ai lati del viso, creando un contrasto così netto con le opere dell’età arcaica che il nuovo stile è definito “severo”.

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