* Spazio vuoto, spazio invisibile

Un altro passo nella critica alla religione della “crescita”

Nello scorso numero un mio scritto compariva nella sezione della rivista Interdipendenza intitolata L’avere e l’essere[1]. In quella circostanza tentavo di inserire funzionalmente il buddismo nella problematica legata al vasto e articolato processo chiamato “crescita”, “sviluppo”, un sistema totalizzante ascrivibile ai fenomeni di idolatria[2], convinzione questa che aveva generato la scelta di quel titolo per l’articolo. Nel riquadro di introduzione alla sezione L’avere e l’essere, il direttore Torrero ricordava l’interessante libro di Fromm[3] nel quale il destino umano viene compreso, quasi racchiuso, in due alternative modali: «le due basilari modalità d’esistenza: la modalità dell’avere e la modalità dell’essere»[4]. Fromm, esattamente trentanni or sono, vide con lucidità quasi profetica il budello senza uscita in cui si è infilata quella parte dell’umanità che ha basato sulla produzione di beni, sul loro possesso e sull’accumulazione della ricchezza lo scopo principale della propria vita, finendo per contagiare, o prevaricare, il resto dell’umanità.

Sul piano etico e comportamentale le soluzioni proposte da quell’autore sono orientate al bene, al rispetto, al riconoscimento dell’interdipendenza individuale e globale, una sorta di buonismo radicale ante litteram particolarmente nel momento in cui delinea la struttura caratteriale che dovrebbe avere «l’uomo nuovo»[5] quale protagonista di una nuova società, nella quale «un nuovo oggetto di devozione prenda il posto dell’attuale»[6]. In questo non vi è nulla di male, l’ingenuità può generare stupore ma per definizione è innocente e, spesso, nobile ed anche esteticamente gradevole. Tuttavia nella parte del testo in cui sono elaborate le proposte di soluzione ad un problema ottimamente identificato e descritto, vi sono alcuni errori di impostazione che, se ignorati, rischiano di trasformare quel testo nel suo opposto: da strumento di liberazione dell’uomo a sue nuove catene.

Il problema è proprio alla base del discorso, Fromm nel suo libro concepisce solo due possibilità: avere o essere, e tenta di leggere tutta la realtà umana secondo queste due categorie. Per convincerci della completezza onnicomprensiva di tale sguardo dualista sulla realtà, fa addirittura ricorso a quelli che definisce “i Maestri di Vita”:

«Pure, i Maestri di Vita hanno fatto proprio dell’aut-aut tra avere ed essere il nucleo centrale dei rispettivi sistemi. Il Buddha insegna che, per giungere allo stadio supremo dell’essere umano[7], non dobbiamo aspirare ai possessi. E Gesù: “Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per me, colui la salverà. Infatti che giova all’uomo l’aver guadagnato il mondo intero, se poi ha perduto o rovinato se stesso?”
(Luca, IX, 24-25)»[8].

Chiamare in gioco Buddha e il Cristo, tirandoli per la giacca a sostegno della propria tesi è un metodo errato di procedere, in ogni caso, ma qui lo è particolarmente.

Tralascio di analizzare la frase evangelica –anche se si potrebbe agevolmente svelarne l’intento, che trascende non solo l’avere ma anche ogni contrapposizione tra essere e non essere[9]– e prendo in considerazione l’aver chiamato a testimone il Buddha: il riconoscermi tra “i suoi” mi motiva a intervenire.

È vero -ci mancherebbe altro- che il Buddha, come ogni essere umano sano di mente, non incoraggia l’avere per raggiungere il fantomatico “stadio supremo dell’essere umano”, ma questo non autorizza in alcun modo a supporre che, per questo, la sua proposta religiosa sia l’essere. Si può ragionare in questo modo solo se, in una sorta di riedizione di Parmenide, si è già deciso a priori che tertium non datur, per cui se vi dico di non investire nell’avere, va da sé che vi voglio indirizzare verso l’altra unica possibilità dell’uomo, l’essere.

Per sostenere ciò occorre ignorare proprio i fondamenti del buddismo, come il Discorso di Vārānasī dove Buddha insegna che la vita dell’uomo è intessuta di dolore, che il dolore ha la sua causa prima nella brama, nella sete, nel desiderio e principalmente: a) nel desiderio di avere, b) in quello di essere e c) in quello di non essere.

Fromm pare sostenere che è sufficiente essere purché in tutte le sue forme etiche, buone, affettuose, amorevoli, per risolvere per sempre il problema della sofferenza ed entrare nello “stadio supremo dell’essere umano”. Duemilacinquecento anni di linguaggio intenzionale, di insegnamento fuori dalla dottrina, fuori dal pensiero discorsivo e dalle parole, di “apofatismo ontologico” per dirla con Panikkar, potevano esserci risparmiati, assieme alle vite costruite sullo zazen, i kōan, lo dzogchen, il śamatha vipaśyanā… Perché è sufficiente essere, magari con «fiducia […] nel proprio bisogno di rapporti, interessi, amore, solidarietà per il mondo circostante»[10] e la sofferenza insita nella struttura stessa di questo mondo scomparirà.

Incredibilmente ad un certo punto Fromm ricorre ad una personale riscrittura delle Quattro Nobili Verità, dicendo di quest’ultime che «costituiscono il fondamento dell’insegnamento del Buddha relativo alle condizioni generali dell’esistenza umana»[11] ma che secondo lui –e chissà poi perché- non si applicano «a casi specifici di malessere umano dovuti a particolari circostanze individuali e sociali»[12] svuotandole così d’ogni valore: se la mia sofferenza “in particolari circostanze individuali e sociali” non fosse compresa nel programma di salvazione buddista, per quello che mi riguarda il buddismo potrebbe anche andare a ramengo.

Infine completa la frittata affermando: «Lo stesso principio di mutamento che caratterizza i metodi del Buddha, è sotteso anche all’idea marxiana di salvezza»[13]. Pur prescindendo dal fatto che il “principio di mutamento” qui affermato è in palese contraddizione con uno “stadio supremo dell’essere umano”, paragonare la proposta di salvazione del Buddha, individuale, interiore, fuori da ogni rapporto col possesso, la produzione, la distribuzione e l’utilizzo di mezzi materiali con “l’idea marxiana di salvezza” che verte essenzialmente sul sociale e la giustizia etica, è un errore imperdonabile. Perché porta a ritenere che libertà interiore e libertà sociale siano coincidenti. La negazione di una possibilità di salvezza secondo lo spirito anche per lo schiavo.

Il buddismo secondo Fromm si rivela un vero e proprio guazzabuglio. Perciò se prendessimo per scontato che chi si avvicina al problema di fondo della nostra era, ovvero il trionfo della religione dell’avere, tentando un contributo alla sua soluzione secondo il buddismo, lo faccia necessariamente sul solo fronte dell’essere, equivale a cadere nel guazzabuglio da lui improvvidamente creato.

Tanto è lucida, puntuale e acuta l’analisi dei problemi che affliggono la società attuale declinata secondo la religione del profitto, tanto è banale la soluzione pseudobuddista che viene proposta. Soluzione che, forse, sarebbe stata invece interessante e valida e di buona utilità se fosse stata da lui ricercata, studiata e collocata nel campo della psicologia, della politica, della sociologia, dell’antropologia, del diritto. Per proporre una soluzione religiosa occorre vivere e praticare –a lungo- una religione, l’imparaticcio in questo campo è un grave errore. Non sto attribuendo legittimità di interloquire nelle cose di religione ai soli addetti ai lavori o ai “dottori della legge”, tutt’altro. Però vivere in modo religioso significa mettere in gioco la propria vita, non è qualche ora o qualche anno di studio o una discussione accademica che passa e scompare.

Il desiderio che si annida alle spalle della religione della “crescita”, è una forza così potente che rischia di mangiarsi l’incauto apprendista stregone che intenda fargli argine con le sole armi della cultura, della civiltà, del perbenismo. Come ottimamente (a mio parere) mostra Golding, nel suo Il Signore delle Mosche[14], la cultura etica in quanto sovrastruttura è perdente di fronte alle pulsioni più “basse”, quali la brama[15], la quale non richiede alcun ragionamento e alcuno sforzo per manifestarsi ed affermarsi, anzi: è pronta all’uso in quantità industriali (quasi) in chiunque.

Poiché è fuori luogo (oltre che pericoloso) chiedere alla religione di risolvere il sociale oppure, ed è lo stesso, sovrapporre la religione al sociale, se si vuole intervenire in una deriva mondiale così vigorosa e irruente occorre porre in gioco armi della stessa potenza degli interessi che hanno scatenato il problema. La forza del desiderio egoistico è la forza dell’io che si afferma in modo irriducibile, non la si può contrastare con i pannicelli caldi di “un nuovo oggetto di devozione”[16] costruito secondo il bene proposto dalla ragione. Chi accumula enormi ricchezze a spese della sofferenza e della morte di migliaia di persone non sostiene che ciò che sta facendo è bene: semplicemente se ne frega, perché assecondare il suo desiderio egotico è tutto ciò che gli interessa. Spiegargli che ciò che fa è “male” lo annoierebbe tanto quanto ci annoiano le raccomandazioni della nonna.

L’unica forza che può contrastare il desiderio egotico è un altro desiderio egotico più forte, o almeno equivalente. Sul piano della cultura, dell’informazione, dell’educazione è possibile un graduale passaggio da forme di egoismo idiota, miope, a forme di egoismo più intelligente, che conduca, perseguendo il loro stesso interesse, gli oligarchi a rinunciare alle briciole del loro guadagno, permettendo una sopravvivenza dignitosa dei molti e, assieme, del pianeta che ci ospita. Garantendo così anche agli oligarchi un futuro che, altrimenti, rischia di non esserci per nessuno.

Non è la soluzione del problema della sofferenza: le scienze sociali non esistono per questo. Non è la soluzione del problema della Giustizia in terra: non è cosa di questo mondo. Ma è realistico: fuori dal piano dello spirito, in cui la proposta del Buddha è accolta e coltivata, l’unica forza in grado di contrastare il desiderio è un altro desiderio, più forte o equivalente. Se nella tabella dei guadagni riusciamo ad inserire valori sempre più ampi (ora si arriva a malapena a preoccuparsi della famiglia, a volte solo dell’amante), ovvero rendiamo più intelligente l’egoismo (se muoio di infarto, o di cirrosi, o intossicato da psicofarmaci, o di cancro da inquinamento con 10 milioni di € in banca sono più pirla rispetto al campare con “soli” 5 milioni, ma sano…) esiste una speranza di invertire il corso degli eventi. Altrimenti non ci resta che la catastrofe totale, irreversibile o… sperare in “un dio che ci venga a salvare”.

Mauricio Yūshin Marassi

Questo articolo viene commentato qui da Claudio Torrero, direttore della rivista Interdipendenza.


[1] Cfr. Interdipendenza N°2, Sacerdoti del dio TAV, p. 49.

[2] “Religione industriale” la definisce Fromm nel libro di seguito citato

[3] Erich Fromm, Avere o essere, Mondadori, Milano 1976

[4] Ivi, 27.

[5] Ivi, 221 ss.

[6] Ivi, 175.

[7] È errato ritenere che il Buddha proponesse di giungere ad uno stato o stadio particolare detto “stadio supremo dell’essere umano”, anzi, la proposta buddista è nel continuo abbandono di ogni stato o stadio. L’unica meta esplicita è sempre e solo la via di liberazione dalla sofferenza.

[8] Erich Fromm, Avere o essere, cit., 31.

[9] Si veda per esempio: «L’essere è il peccato, nel riconoscerlo come tale, nel negarlo, nel cercare di estinguerlo […] si giunge alla fine del pellegrinaggio, che consiste appunto nello sfrattare l’essere» e: «Dio può stare al di là dell’essere soltanto se l’esperienza che si ha dell’essere non è quella di una positività ma semplicemente di una carenza», cfr. Raimundo Panikkar, Il silenzio di Dio, Borla, Roma 1972, 230 s.

[10] Erich Fromm, Avere o essere, cit., 221

[11] Ivi, 218.

[12] Ivi, 218 s.

[13] Ibid.

[14] William Golding, Il Signore delle Mosche, Mondadori, Milano 1980.

[15] Interessante l’etimo di questa parola: viene dall’antico gotico bramōn, muggire, bramire, urlare (per il desiderio).

[16] Cfr. nota 6.

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