(Universalità del buddismo)
III) La traccia delle parole

Quella che è attualmente la più antica traccia (scritta!) di un’affermazione etico morale in senso religioso profondo la troviamo negli aforismi dell’egizio Amen-en Apt, dell’ottava dinastia (1500-1360 a.C.) (10): «È meglio essere un mendicante nelle mani di Dio, che un ricco al riparo di un tetto». Ed è l’etica morale di tipo simile a quello generatosi ai tempi in cui la civiltà nasceva tra l’Eufrate e il Nilo a radicarsi profondamente nelle epoche prebuddiste in ogni forma religiosa indiana.Così si completò la triade -formata da pratica del corpo, conoscenza profonda ed etica morale- che in varie combinazioni e articolazioni forma la base dell’universo religioso indiano. Naturalmente anche del buddismo: non vi è sutra antico che non esalti l’etica, l’ascesi e la saggezza profonda.

L’affinarsi del linguaggio portò a parole specifiche, la scrittura le fissò ed è allora possibile seguire la storia attraverso di esse: l’operazione fondamentale da compiere nella pratica fu detta nell’antichità naishkramya (11), “non dare inizio” “non principiare”, ma anche “lasciar andare”. Molto tempo dopo, con la raffinazione testimoniata dalle opere della prajñāpāramitā -che assieme al Sutra del Loto costituiscono la maturità dell’inculturazione del buddismo in India-, troviamo il Sutra del Diamante con l’invito a “dare inizio a un pensiero non sostenuto”: un’affermazione positiva, e quindi rara, che offre allo sguardo un pensiero privo di relazioni e rompe ogni legame con la logica e con la realtà fenomenica.

Contemporaneamente, con l’inizio dell’avventura cinese, grazie alla mistica daoista che già parlava di “riposare nello stampo del Cielo”, “sedersi nell’oblio”, “sedersi come cenere spenta”, “sedersi come legno secco” (12), e per la presenza in tutta la cultura cinese della consapevolezza dell’importanza profonda di “imparare col corpo”, il rinnovato impulso allo “star seduti” proveniente dall’India apparentemente ebbe diffusione veloce e senza particolari ostacoli.

Tuttavia, a quel tempo, nella cultura religiosa indiana lo “stare seduti”, la postura più diffusa nella pratica detta genericamente dhyāna, aveva alle spalle (almeno!) dieci secoli di storia all’interno della tradizione vedica e prevedica e sei secoli all’interno della tradizione buddista. Non solo la postura interiore di quello “star seduti” aveva raggiunto alti livelli di raffinazione, ma si erano sviluppate differenze sostanziali tra la tradizione buddista e quella induista -nonché all’interno della stessa tradizione buddista- riguardo a quel medesimo atto apparentemente sempre uguale ma sotto la superficie vivificato in modi diversi, a volte inconciliabili. Perciò, in Cina, lo “star seduti” secondo il buddismo ebbe una genesi tutt’altro che chiara e univoca per un periodo molto lungo.

Noi sappiamo di queste evoluzioni grazie alle tracce lasciate dalle parole, che si rincorsero modificandosi per secoli sino a che le traduzioni (13) dei testi indiani cominciarono a portare un poco di ordine. Ma fu solo a partire dal quarto/quinto secolo (14) che lo “star seduti”, come noi lo abbiamo incontrato nella scuola zen giapponese, fu conosciuto e tramandato. Anche in questo caso l’archeologia linguistica è testimone dell’evoluzione e dell’approfondimento che scorrono dalla conquista cinese del Lankāvatārasūtra, del Sutra del loto, del Sutra di Vimalakirti, del Sutra del Nirvana, del Sutra del diamante e del Sutra del cuore, si manifestano poi come oscillazioni tra il vuoto della scuola Mādhyamika e la fenomenologia della Vijñānavāda-Yogācāra sino ad arrivare alla composizione dei testi autoctoni: tra i più antichi ricordiamo il citato Dasheng Qixinlun, e lo Zhengdaoge (15), Il canto di testimonianza del cammino.

Passiamo così attraverso il “non v’è né spirito (mente) né Buddha” di Niutou (“Testa di bue”) Farong (16) per arrivare al suo opposto, l’esortazione “essere spirito, essere Buddha” che fa capo al grande Mazu Daoyi (17). Transitando per Shitou (“Testa di pietra”) Xiqian (18) -dalla cui discendenza si originò la scuola Caodong/Sōtō- che riguardo alla propria esperienza interiore disse: «Il vasto cielo non ostacola le bianche nuvole fluttuanti». Ricordiamo, poi, il “brillare in silenzio” avocato da Hongzhi Zhengjue (19). Per arrivare, nel XIII secolo al “liberarsi di corpo e mente: corpo e mente liberati” di Tiantong Roujing e Dōgen. In tempi più recenti abbiamo avuto “aprire le mani del pensiero” (20), di Uchiyama Kōshō e “fare zazen è la fine di tutto” (21) il noto “motto” del suo predecessore Sawaki Kōdō. Ed ora eccoci qua.

Tuttavia, seguendo la traccia delle parole tra naishkramya e Uchiyama, abbiamo trascurato le altre due facce della triade che da sempre compongono l’universale espresso in termini umani: la forma del corpo e l’etica morale. Per quanto riguarda la prima, lo star seduti, vi è una minuta sequela di informazioni e di trasmissioni personali lungo i secoli per cui, come appartenenti alla scuola di Dōgen, possiamo tranquillamente supporre che come noi sediamo coincida con la forma più raffinata di tale arte. Per l’etica temo vi siano dei problemi.

Note:
10) Cfr. A.C. Bouquet, Breve Storia delle Religioni, cit., 78.
11) Nekkhamma in pāli. Il termine risale almeno al quinto secolo a.C.

12) Cfr. Zhuangzi, 荘子, cap. II e VI. Non stupisce la presenza di tali concordanze tra la conoscenza e le pratiche dell’India antica e il daoismo: “Il Taoismo derivò, in una certa misura, dal substrato panasiatico sciamanico, per cui non ci meravigliamo di certe analogie fra pratiche taoiste e pratiche yoga”, cfr. L.Lanciotti, Introduzione a Chuang Tzu, a c. di F.Tommasini, ed. TEA, Milano 1989, VIII.

13) Le più antiche traduzioni in cinese di testi che parlano del “sedersi” sono, forse, quelle del monaco buddista Kang Seng-hui, originario della Sogdiana, che tra il secondo e il terzo secolo tradusse il Sūtra del sedersi nel dhyāna col titolo Zuo chan jing 坐禅 經. Kumarajiva, forse nel 402, tradusse il Sūtra del samādhi del sedersi nel dhyāna ovvero lo Zuo chan sanmei jing 坐 禅 三 昧 經.

14) Fu, forse, nel monastero di Huiyuan, 慧遠, 344-416, che si iniziò a praticare in Cina lo zazen unito allo studio dei testi della prajñāpāramitā. Huiyuan distinse con forza la morale buddista legata ai precetti dall’etica relazionale confuciana.

15) 証 道 歌, in giapponese Shōdōka, attribuito a Yongjia Xuanjue (in giapponese Yōka Genkaku), 665-713.

16) 594-657, in giapponese Gozu Hōyū, discepolo del quarto patriarca cinese della scuola Chan, Dayi Daoxin (580-651). La sua affermazione richiama la negazione di Nāgārjuna e della scuola Madhyamaka (o Mādhyamika).
17) 709-788, in giapponese Baso Dōitsu, forse la più grande figura del Chan.
18) 700-790, in giapponese Sekitō Kisen, autore del Can Tong Qi, Comprendendo l’uno e molteplice, in giapp. Sandōkai.
19) 1091- 1157, in giapponese Wanshi Shōgaku. Spesso quell’espressione viene erroneamente tradotta con “illuminazione silenziosa” oggettivando una fantasia: “l’illuminazione” in quanto ente.
20) In giapponese: “atama no tebanashi”, ovvero: 頭の手離し.
21) In giapponese: “zazen shitara oshimai”, ovvero: 坐禅したら 御 仕 舞 い.

Prima parte

Terza parte

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