Ma il momento non era ancora giunto. Anzi, Siddhārtha continuava a vivere come prima, e a poco a poco l’impressione di quei quattro incontri si affievolì e lui quasi li scordò. Giunto all’età del matrimonio, come usava a quei tempi furono combinate le nozze. Siddhārtha si sposò e ben presto la sua sposa aspettò un figlio. Ma proprio il giorno della nascita del primogenito, Rāhula, Siddhārtha fu preso da una tristezza infinita. Si rese conto che anche suo figlio, appena nato, era destinato a incontrare nella vita la sofferenza, la malattia, la vecchiaia e infine la morte, e pensò che lui, come padre, non era in grado di insegnargli a vivere affrontando questa realtà, perché lui stesso non ne era capace. Nessuno lo aveva mai educato ad altro che a essere felice nel comando e nell’avere e a diventare re. Allora, nel cuore della notte, prese una decisione terribile e grande. Decise di abbandonare tutto, di lasciare la casa, per andare nella foresta, solo, a meditare, pregare, studiare finché non avesse risolto il problema che ormai era divenuto per lui il più importante di tutti: il problema della sofferenza nella sua vita e in quella di tutti gli uomini. All’alba, quando tutti dormivano, salì a cavallo e lasciò il palazzo di suo padre. Arrivato al limite della foresta, si spogliò dei suoi begli abiti, si tagliò i capelli, rimandò indietro il suo cavallo ed entrò nella foresta. Aveva ventinove anni.

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Nella foresta c’erano altre persone che avevano fatto la sua stessa scelta. Ciascuno pregava e meditava e studiava, chi per conto proprio, chi con un insegnante, chi insieme ad altri: tutti credevano che si possa trovare un modo di vivere che aiuti a capire cosa ci stiamo a fare al mondo, ovvero se c’è una soluzione alla sofferenza oppure no. In India (come in ogni luogo del mondo) c’erano e ci sono tante pratiche religiose per aiutare le persone a trovare la propria strada. Siddhārtha era molto serio: ce la metteva tutta e seguiva con grande cura le pratiche religiose che la sua cultura gli proponeva: il digiuno, il controllo del respiro, la meditazione, il silenzio, lo studio. Divenne presto famoso fra gli asceti per la sua serietà. Dopo sei anni di quella vita, però, Siddhārtha fu ripreso dal dubbio: si accorgeva che sebbene i suoi sforzi, le macerazioni ascetiche lo avessero condotto alle soglie della morte, non aveva ancora risolto il problema nel quale si era ingaggiato: perché c’è la sofferenza nella vita? C’è una soluzione alla sofferenza? Allora gli venne un’idea: “Siccome con tutti i miei sforzi e le mie rinunce non risolvo nulla, pensò, vuol dire che sto sbagliando sistema. Devo cambiare metodo e non cercare di risolvere il problema trattandolo come fosse una montagna da scalare e poi da lasciarsi alle spalle, ma cercando di capirne la natura”. Comprese allora che la sofferenza non è qualcosa di estraneo che sta lì in mezzo alla tua vita come un ostacolo da aggirare, ma ne fa parte, è dentro, non la si può separare dall’esperienza della vita. Allora pensò: “La sofferenza sta dentro alla vita e io non la posso togliere con le mie sole forze. Non ce l’ho messa io, e io non la posso eliminare. Ma allora, siccome la sofferenza fa parte della vita, devo chiedere alla vita perché è fatta anche di sofferenza e se esiste un modo per non soffrire: solo la vita lo può sapere e me lo può dire.” Il ragionamento era buono: ma come si fa a chiedere qualcosa alla vita di cui noi stessi siamo una forma? Come posso chiedere qualcosa alla mia vita, se io stesso sono la vita?

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E qui Siddhārtha dimostrò di essere una persona davvero geniale: siccome la vita non è qualcosa a cui si possono fare domande e che dà risposte come fosse un’altra persona ma, piuttosto, è “quello” che mi fa vivere e mi anima; insomma la vita è anche me, è me, non è qualcos’altro, allora pensò che il solo modo per sapere qualcosa della vita era mettersi in ascolto della vita stessa: “Se imparo ad ascoltarla, si disse, sarà la vita stessa a dirmi come è fatta e quale è il suo senso.” Allora uscì dalla foresta, si rifocillò, si coprì con una veste formata con brandelli di abiti appartenuti ai defunti, si guardò intorno e vide un grande albero dalle ampie fronde. “Qui andrà benissimo” decise “non mi alzerò di qui finché la mia vita non avrà spiegato se stessa” e si sedette in ascolto, a gambe incrociate, immobile e in silenzio sotto quell’albero.

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