L’arte del buddismo (sesta parte)

Tuttavia però, vi è un elemento nuovo di cui non abbiamo ancora dato conto. Le forme d’arte giapponese ora menzionate (e molte altre ancora) si avvalgono, a differenza di quelle che le hanno precedute sino al secolo XIII-XIV, della partecipazione del vuoto come elemento compositivo.
La presenza del fattore zero, che non è un nulla, trova la sua funzione nell’assenza di ogni pieno che lo caratterizza. Come quando fu pensato per la prima volta come valore matematico: nel V secolo a.C. il grande grammatico indiano Pāņini fissò in formule di tipo algebrico la morfologia, la sintassi e la fonetica del sanscrito. Le parole “senza prefisso” si giovano di questa assenza nell’indicare un significato. Che sarebbe diverso se un prefisso vi fosse. Pāņini comprese il valore di quel vuoto di prefisso, e nacque il concetto di zero non come “niente” ma come valore del vuoto. Cinquecento anni più tardi Nāgārjuna diede vita alla prima scuola di pensiero buddista identificando la Via di Mezzo -insegnata dal Buddha a Vārāņasī, nel suo primo discorso- con il vuoto non pensato, in sanscrito śūnya; parola che, nel settimo secolo, accompagnata dal simbolo tondo che la rappresenta, tramite l’arabo sifr giunse in occidente e mutando prima in zephirum divenne poi l’odierno zero.
Quando il buddismo, nel suo viaggio verso Oriente, nel primo secolo della nostra era incontrò la grande cultura cinese, per lungo tempo rischiò di essere assimilato, disciolto in un mare che aveva o pensava di avere già sondato i recessi più nascosti dell’animo umano. Tuttavia, dal quarto secolo, l’originalità della proposta offerta da Śākyamuni si svincolò dalle pastoie del sincretismo e dalla pretesa di racchiudere nelle vecchie forme anche ciò che ad esse non assomigliava, e questo germogliare fu possibile soprattutto grazie alla qualità di pensiero della scuola di Nāgārjuna, la Mādhyamika o “Della Via di Mezzo”. Così quando Bodhidharma, nel sesto secolo, dall’India portò in Cina la forma vivente, ovvero priva di mediazioni simboliche, della via che conduce e mantiene nella libertà dal dolore, trovò ad attenderlo la Via di Mezzo secondo Nāgārjuna, realizzata come profonda consapevolezza del vuoto e della impermanenza di ogni vita ed ogni fenomeno del mondo.
Tuttavia il terreno nel quale mosse i primi passi e crebbe la nuova scuola, più tardi chiamata Chan in cinese e Zen in Giappone, fu naturalmente quello in cui il confucianesimo ed il daoismo erano padroni da molto tempo. L’essenzialità quasi a-religiosa dello Zen riconobbe nel naturalismo ai limiti della misantropia dei seguaci del Dao un fratello, un amico che, dedito alla lettura del libro della natura ne assecondava il corso senza nuocere ad alcuno. Allora, nell’ottavo secolo, i primi monaci del Chan che, dipingendo e poetando, tentarono di esprimere l’indicibile secondo l’esperienza che ne avevano nella loro quotidianità, presero a prestito le forme e le atmosfere che caratterizzavano la vita idealizzata degli eremiti del Dao aggiungendovi, absit iniuria verbis, l’espressione del vuoto e dell’estrema labilità della vita delle creature. Si determinò così un nuovo canone estetico, che usò come modelli le fattezze dei mitici sennin (18), gli eremiti daoisti, ed il paesaggio naturale.
Gli autori di questi dipinti a china, come pure i poeti che li commentavano, erano monaci Chan, praticanti assidui dello zazen (19), avevano trascorso molti anni -anche trenta o quaranta- nell’aderire alla vita interiore senza interferire con le proprie costruzioni mentali. Avevano un’esperienza diretta e limpida dell’essenza della vita, del vuoto pieno di ogni potenzialità. I loro dipinti ed i loro poemi erano figli di questo tipo di religiosità e perciò non contenevano immagini “sacre” o devozionali; piuttosto la devozione e la sacralità erano il linguaggio con cui parlavano soggetti umilissimi -quali una pietra e un ciuffo d’erba- come spersi su un grande sfondo vuoto. L’apparire della vita nel suo enigma, nell’immensità cosmica.
In qualche caso le figure umane raffigurate erano ancora soggetti indiani, i più famosi bodhisattva o lo stesso Bodhidharma, ma completamente trasfigurati, con fattezze apparentemente rozze, barbe e capelli incolti, espressioni quasi corrucciate, nelle quali un senso di stabilità, saldezza e mistero pervadono la scena. Altre volte troviamo una sorta di straccioni sorridenti che osano irridere la luna o che con una ramazza di fascina ammucchiano le foglie. Il drago, la personificazione del mistero, si intravede tra lembi di nebbia o mentre occhieggia nel buio di una grotta.
A partire dal tredicesimo secolo quest’arte povera e diretta iniziò ad essere praticata in Giappone e furono ancora i monaci Chan, che da allora prese il nome di Zen, i suoi primi e principali interpreti. L’essenzialità del gesto, la sua pregnanza che realizza segni di individualità assoluta, la natura quale protagonista, la presenza di un tenue e chiaro sentimento di struggente malinconia nello sfumare del tempo, furono i soggetti che -trasposti nella forma del cadere di un petalo, nel profilo indistinto di una montagna lontana, nel volo di un uccello intuito più che visto- la parte più delicata della sensibilità giapponese ha subito compreso e riprodotto.
Ma, relativamente presto, l’assenza di chiari simboli religiosi o di immagini mutuate dal pantheon di qualche religione non costituì più solo la caratteristica di un linguaggio che suggerisce senza esplicitare, un parlare del divino senza portarlo sulla scena. A poco a poco, in una transizione impercettibile ma scoperta, il passerotto, il fiore, il ritratto dell’asceta divennero il vero soggetto, addirittura ricomparvero anche figure religiose, bodhisattva e divinità, ma come pittura di genere, bella ma nel profondo muta, senza più il quid ineffabile che l’aveva generata.
Fu l’ingresso quasi prepotente dell’arte nata dal buddismo nella sensibilità artistica laica giapponese, e a questa popolarizzazione benefica per tutta la società nel suo complesso corrispose il declino dell’arte Zen come espressione religiosa.

Note:
18) La parola è qui in giapponese perché più nota in questa lingua. L’equivalente cinese, traslitterato col sistema Pinyin, è xian.
19) In cinese zuochan, la pratica, trasmessa in Cina da Bodhidharma, del semplice star seduti col viso rivolto al muro, immobili, in silenzio.

M. Y. Marassi
Fano, 29 maggio 2005
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