L’arte del buddismo (quinta parte)

In seguito la potenza sprigionata dalle pratiche tantriche si pose al servizio della via della liberazione dalla sofferenza secondo la visuale mahāyāna, ossia nel sostegno reciproco affinché ogni esistenza tragga vantaggio incamminandosi sul cammino della salvezza. Il buddismo tantrico cambiò nome, divenne vajrayāna, il veicolo di diamante o del fulmine (8). Facilmente migrante come ogni buddismo, a partire dall’XI secolo questa forma si radicò particolarmente in Tibet e Nepal. Prima però, grazie alle traduzioni in cinese dei tantra principali, portate a compimento già dall’ottavo secolo, il Vajrayāna si diffuse in Cina e da qui, nel nono secolo, penetrò in Giappone con il nome di Shingon, Vera Parola, ed anche Mikkyō, Dottrina Segreta. In Cina questa scuola, chiamata Zhenyan, scompare nell’845, l’anno della grande persecuzione antireligiosa anti-esterofila, in Giappone invece si diffonde e prospera sino ai nostri giorni. Tra le pratiche tantriche grande importanza ha la composizione e la visualizzazione dei maņdala (9). Kūkai, il monaco giapponese che nell’806 trasmise il buddismo tantrico/vajrayāna dalla Cina in Giappone afferma: «Gli insegnamenti del buddhismo segreto sono tanto profondi da sfidare qualsiasi espressione scritta; soltanto la pittura può rivelarli (10)». Queste brevi parole ci portano alla funzione dell’arte figurativa come strumento indispensabile della trasmissione iniziatica.
La tecnica di realizzazione dei maņdala e tramite i maņdala, implica la conoscenza del loro significato, oltre che della loro precisa composizione. Significato che a sua volta sarà trasmesso dalle forme realizzate secondo la potenza dell’arte. Sono strutture con sino a cinque colori composte anche da migliaia (11) di figure simboliche che costituiscono la trama del cosmo nei suoi aspetti più profondi. Ciascuna di queste figure può “apparire” in quattro modi diversi: in forma umana a colori, rappresentata da un gesto o un’azione caratteristica, personificata dai propri attributi simbolici specifici quali un fiore un libro o una gemma, sostituita da sillabe-seme scritte in sanscrito.
L’armonia, la bellezza, la precisione, l’insieme indicibile della simmetria delle composizioni costituiscono una forma d’arte che è contemporaneamente un linguaggio preciso, il segno grafico della visuale complessiva dell’idealismo cosmo-teista. Un ideale espresso da figure di grazia infinita e profonda serenità, unite a presenze che emanano un potere terribile; secondo l’insegnamento dello Shingon: «Assapori la serena dignità di Mahāvairocana (12) perché la parte più profonda del tuo cuore è in comunione con lui. Temi l’espressione severa del volto irato de L’Immobile (13) perché nella tua vita e nella tua mente vi è ciò che può essere trafitto dalla sua spada inflessibile».
Un’altra pratica caratteristica del buddismo Vajrayāna è la recitazione dei mantra (14). Che però non è prerogativa esclusiva di queste scuole. Troviamo dei mantra, e la loro recitazione, in quasi tutte le tradizioni buddiste, comprese quelle del Buddismo Antico, il Theravāda.
Per l’argomento che stiamo trattando è interessante considerare la pratica di un particolare tipo di mantra, i dhāraņī (15), detti anche “mantra lunghi”. Si tratta di componimenti in sanscrito, anche molto lunghi, nei quali il significato delle parole ha comunque un’importanza ma la parte che viene fruita, vissuta dal praticante e dagli astanti, è essenzialmente il suono, ovvero, in una particolare accezione, la musica. Sono veri e propri esercizi di incantamento dove la concentrazione necessaria per pronunciare nel loro ordine preciso tutte le sillabe, lunghe brevi e medie, unita al suono che si produce, generano uno straniamento all’interno del quale è esperienza usuale trovarsi ad essere spettatori avulsi mentre udiamo la nostra voce mista a quella degli altri recitanti e vediamo le nostre mani che reggono il libro del dhāraņī. L’effetto è certamente suggestivo: udire, anche da lontano, un gruppo di monaci che recitano un dhāraņī è un’esperienza indimenticabile. Un amico (sano di mente e poco incline a facili suggestioni) mi raccontò di aver partecipato sulle rive del Gange ad un raduno di alcune migliaia di praticanti il dhāraņī durante il quale più di una volta si sentì come sollevare da terra dalla vibrazione sonora che lo circondava.
Anche in questo caso è evidente come la sovrapposizione tra l’esecuzione, la fruizione e la forma siano complete. Da questo punto di vista voglio solo accennare ad un’altra espressione artistica, di tipo performativo, in cui suono, azione e forme concorrono contemporaneamente. Non si tratta di esibizioni di tipo esteriore o pubblico bensì della normale gestione dei riti buddisti di ogni scuola. Sono costruzioni gestuali dove tutto il tempo è strutturato ed utilizzato all’unisono da un gruppo di persone minuziosamente esercitate, alla ricerca della perfezione formale, che si muovono in sintonia tra di loro e con la trama del rito, che in quel modo viene fatto vivere. Questi eventi appartengono all’arte del teatro, se vogliamo classificarli secondo una forma d’arte, un teatro totale dove ogni gesto istante per istante, ogni suono (campana voce tamburo timpano cembalo) si integra con tutti gli altri elementi (lo stile, il ritmo, il profumo dell’incenso) a formare un maņdala vivente e perciò mobile, che si compone vive e muta sotto i nostri occhi-orecchi-naso. Quando e se tali momenti di religiosità artistica divengono spettacolo, esibizione, muoiono e con loro scompare il senso per il quale avvengono.
La raffinatezza estetica che emana da queste manifestazioni artistiche, dove il bello e il vero sembrano gareggiare su un piano ineffabile di vuoto e impermanenza, col passare dei secoli ha permeato le elite intellettuali giapponesi ed ha partecipato alla nascita di quelle forme di realizzazione personale in cui l’estetica del gesto e l’armonia delle forme costituiscono una sorta di religiosità laica, un terreno comune nel quale sono contemporaneamente evidenti i caratteri originali delle fonti religiose e la secolarizzazione secondo canoni estetici umani. L’arte del tè, l’Ikebana (16), la calligrafia, il teatro Nō (17) ma anche l’architettura e l’arredamento delle case giapponesi sono le punte visibili della penetrazione artistica, una generale ricaduta capillare dell’arte nata dal buddismo, nella vita giapponese a partire dal XV secolo.

Note:

8)  Il sanscrito vajra significa contemporaneamente diamante e fulmine.
9) La parola, secondo il dizionario, significa “cerchio”. Tuttavia maņda, letteralmente, è “schiuma derivante dalla cottura del riso”, perciò significa “contenuto”, “essenza”. E la è la forma che la circonda. Si può quindi tradurre con “il cerchio che circonda, racchiude l’essenza” e, più estesamente, con “l’essenza del risveglio nella sua perfezione manifesta”.
10) Cfr. P. Cornu, Dizionario del Buddhismo, Bruno Mondadori, Milano 2003, 579.
11) Questo è particolarmente vero per i due maņdala fondamentali della scuola Shingon: il Garbhadhātu maņdala, che simboleggia l’insieme delle forme mentali e delle forme manifeste nell’universo, ed il Vajradhātu maņdala dove è rappresentata la natura fondamentale, o natura di Buddha, che pervade ogni essere.
12) In giapponese Dainichinyorai, il Buddha Grande Sole o Grande Luce.
13) In giapponese Fudō, l’aspetto terrificante di Mahāvairocana
14) mantra significa ”strumento del pensiero”, appartiene allo stesso gruppo di mati, ”pensiero”, e del verbo man “pensare”, “credere”, “immaginare”, “supporre”, da cui manas “mente”, “intelletto”. Ha un’origine etima comune a parole italiane quali “mente” “commento” “memento” “mentire” (ovvero “fingere con la mente”), o appartenenti alle lingue nordiche, come l’inglese ed il tedesco in cui man significa “uomo” tout court. Siccome il suffisso tra significa “protezione”, “riparo”, alcuni commentatori traducono mantra con “protezione della mente”. Riguardo a ciò che questa parola indica, con molta semplicità E. Conze dice: «I mantra sono formule verbali che quando vengono pronunciate producono miracoli». È detto essere ”il suono puro della realtà assoluta”.
15) Letteralmente: sostegno.
16) Letteralmente: vitafiore.
17) Letteralmente: abilità, talento.

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