Accanto alla vecchia pietra

sotto a questo pino la mia pura terra.

Questa mia pura terra sotto il pino: la Pura Terra (1).

Yokoyama Sodō, il monaco dal flauto di foglie (2)

Sawaki rōshi, mia guida spirituale per molti anni, parlando di se stesso soleva dire: “Io sono l’essere eternamente illuso. Nessuno è così illuso quanto me. Io ho la palma d’oro dell’illusione. Questo mi è perfettamente chiaro durante zazen.”

Che strano fenomeno, lo zazen! Sembra proprio che idee e fantasie di ogni genere, pensieri di poco conto, tutte le illusioni da cui è composta la natura delle persone ordinarie (3), durante lo zazen abbiano l’irrinunciabile tentazione di nascere ed affiorare. Così pure, di conseguenza, nasce il desiderio di sbarazzarci di questi pensieri: un desiderio imperioso al quale si uniformano i nostri sforzi. Queste sensazioni, queste esperienze mentali non esistono per coloro i quali non praticano zazen.

Come mai, non appena ci sediamo sullo zaffu, raddrizziamo la schiena e ci dedichiamo allo zazen, i pensieri si avvicendano uno dopo l’altro, senza posa? Il motivo, che possiamo comprendere nel fare zazen, risiede nel fatto che ciascuno di noi, principe o mendicante (4) che sia, è una persona ordinaria. La tentazione di allontanare quel tipo di pensieri perché le illusioni interferiscono sconsideratamente con il nostro e l’altrui benessere, è anch’essa una pulsione nata all’interno del nostro zazen. In modo improprio noi chiamiamo Buddha questo zazen che ci guida nel nostro cammino.

Secondo il corretto insegnamento, la semplice consapevolezza di essere degli illusi, consapevolezza che sorge durante la pratica dello zazen, in realtà fa di noi dei risvegliati, dei buddha. E’ lo zazen ad insegnarci che anche noi siamo nella confusione e nell’ignoranza liberandoci, così, dall’inganno. Proprio nel momento in cui pratichiamo zazen ed osserviamo con attenzione tutte le idee, i pensieri che vengono a galla, ci rendiamo conto di quanto siamo ordinari, normali e di come non vi sia nulla di cui essere orgogliosi o di cui vantarci: null’altro da fare che rimanere quietamente lontani dalla ribalta. In definitiva, questo è tutto ciò che siamo (5).

Il satori consiste nel risvegliarci alla realtà della nostra illusione. Ecco allora, per quanto piccolo, il desiderio di arrestare quei movimenti auto-fuorvianti. Questo è il modo in cui le persone ordinarie vengono salvate dallo zazen. Così, aldilà di ogni dubbio, realizziamo la nostra ordinarietà nella pratica dello zazen ed ogni allontanarsi da zazen, dal Buddha, darà corso all’incapacità di venire a capo delle nostre idee illusorie, perderemo l’orientamento, ci troveremo fuori strada. Possiamo dire che questo mondo è traviato perché non è in grado di occuparsi delle proprie illusioni. Traviarsi, smarrirsi significa trasmigrare nei sei mondi (infernale, degli spiriti insaziabili, animale, degli spiriti combattivi, umano, celeste) (6). Tutti i problemi del mondo (politici, economici ecc.) nascono in situazioni in cui è assente la consapevolezza della nostra ordinarietà (7) .

Sawaki rōshi, mio defunto maestro, soleva dire: “Coloro i quali non sono coscienti della loro ordinarietà, da un punto di vista religioso sono sciocchi in modo addirittura comico.”

Il diavolo… cioè illusione, quando è vista/o come diavolo non può più esibire i suoi poteri e scompare spontaneamente (8).

Shakyamuni si risvegliò, aldilà di ogni dubbio, alla realtà di essere una persona ordinaria: per questo divenne un buddha ed iniziò a vivere la vita di un buddha. Quando realizziamo la nostra ordinarietà siamo un buddha e quando siamo un buddha non importa quante fantasie o pensieri irrilevanti sorgano: non sono comunque un impedimento per un buddha, per cui non costituiscono più un ostacolo. Le illusioni che non ci ostacolano più sono dette sogni. La via del Buddha, la via della pace, è trasformare le fantasie in sogni (9).

Note alla traduzione:

1) In questo breve poema (l’unica parte del testo di cui, al momento, è reperibile l’originale giapponese) compare, per tre volte, il termine giapponese “jōdo” che letteralmente significa “pura terra”. Tuttavia la medesima espressione è il nome di una scuola buddista di origine indiana, “importata” in Giappone dalla Cina, detta appunto Scuola della Pura Terra. In questa scuola l’espressione “Pura Terra” indica il “luogo” della salvezza eterna. E’ evidente quindi come l’Autore, usando questa parola, giochi con i suoi significati sovrapponendoli e distinguendoli nel gioco del “non due”. Che è il gioco al quale ci invita nello scritto che segue.

2) Yokoyama Sodō (?-1980), contemporaneo e confratello di Uchiyama Kōshō, nel 1936 divenne discepolo di Kōdō Sawaki. Visse nel monastero Antaiji, allora collocato alla periferia di Kyōtō, sino al 1957, anno in cui si trasferì nella cittadina di Komoro, tra le montagne del Giappone centrale, dove per molti anni gestì una sorta di monastero all’aria aperta. Trascorreva il suo tempo nel parco Kaikoen (Nostalgia del Passato), che circonda un antico castello, facendo zazen in mezzo agli alberi e “suonando” una foglia da cui riusciva a ricavare delicate melodie. Per questo divenne famoso come “il monaco dal flauto di foglie”. Ancora oggi, il 29 Aprile di ogni anno, nel Parco della Nostalgia del Passato di Komoro che per 22 anni costituì il suo ritiro, si svolge un concerto di “flauti di foglie” in sua memoria. L’antica pietra (l’ideogramma hi che ho così tradotto vuol dire: lapide, cippo, monumento, vecchia pietra. Infatti l’uso comune è utilizzare, per quello che per noi è un monumento o un cippo commemorativo, una grossa pietra presa sulla montagna senza modificarne la forma originale) di cui si fa menzione nella poesia, si trova nel luogo, circondato dai pini, in cui era solito fare zazen.

3) In questo breve scritto appare evidente l’approccio personale, originale e contemporaneamente tradizionale di Yokoyama Sodō rōshi. Nascosti in un apparente uniformità di linguaggio con i suoi contemporanei, vi sono toni e punti di vista inusuali in quel filone della scuola Zen che discende dal successore di Sawaki: Uchiyama Kōshō rōshi. Persone ordinarie: in tutta la cultura buddista, a partire già dal buddismo antico dei primi sutra, si distingue tra buddha e persone ordinarie. Non è questa una classificazione in base alle doti innate, allo stato sociale o al livello di realizzazione personale. Questa distinzione fa riferimento solamente all’essersi avvicinati o meno all’insegnamento del Buddha Shakyamuni: le persone ordinarie sono quelle che quell’insegnamento non hanno potuto o voluto accogliere. Il maestro Sodō, in questo caso, usa quest’espressione in modo apparentemente opposto: anche essere un buddha è appartenere al mondo dell’illusione. Nella semplicità del suo discorso cominciano ad affiorare connessioni con punti estremamente complessi e profondi sia dell’insegnamento orale che del canone scritto. L’insegnamento che afferma l’ordinarietà o appartenenza al mondo della quotidianità del mondo del risveglio è presente già nel buddismo indiano, in particolare nel Sutra del Loto e nel Sutra di Vimalakirti. Tuttavia lo stile celebrativo della letteratura religiosa indiana non favorì l’emergere di questa indicazione. Fu l’influenza della scuola del Dao che, più tardi, in Cina contribuì a focalizzare chiaramente questo insegnamento anche nella scuola Chan. E’ rimasta famosa l’affermazione di Nanquan Puyuan (più noto col nome giapponese di Nansen Fugan, 748-834) : “Proprio questa mente ordinaria è Buddha”. Questa e altre affermazioni dello stesso tenore sono in sintonia con l’antica sapienza cinese; Zhuang-zi (III sec. a C.) disse: “Mentre sogniamo non sappiamo di sognare, interpretando un sogno nel mezzo di un altro sogno, e soltanto al risveglio sappiamo di aver sognato. E soltanto al momento del grande risveglio sapremo che s’era trattato di un grande sogno. Malgrado tutto ciò gli sciocchi si credono desti; (sono addirittura certi di essere) principi o pastori tutti uniti in questa medesima certezza. Voi e Confucio non fate che sognare; e io che dico che sognate, sono io stesso un sogno” cfr. Zhuang – zi in Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, cit., vol. I, 122. Le parole tra parentesi sono mie. Questa affermazione di Zhuang-zi è estremamente somigliante alla posizione di Dōgen nel capitolo Muchū setsu mu (spiegare un sogno da dentro un sogno) dello Shōbōghenzō: la realtà del sogno è condivisa sia dalle persone comuni sia dai grandi saggi, dai Buddha e dai Patriarchi. La differenza tra gli uni e gli altri è che i primi non vedono la natura di sogno della realtà (“…gli sciocchi si credono desti…”). Che è esattamente quanto espresso da Yokoyama partendo dalla citazione di Sawaki.

4) Principe e mendicante: vedi nota precedente. Il fatto di pensarsi in un modo (principe) o in un altro (mendicante) è aggiungere illusione ad illusione: non solo scambiamo il sogno con la veglia ma ci immaginiamo in un modo o in un altro. E’ una sovrastruttura, un’aggiunta al nostro essere persone ordinarie che si rendono conto di essere tali, così cessando di esserlo.

5) La frase precedente ci introduce ad un’altra parte dell’argomentare di Yokoyama basata sul contenuto di uno dei sutra più noti del canone: il Mahasatipatthanasuttanta (Il grande discorso sui fondamenti della presenza mentale, Digha Nikaya, 22). In questo sutra, nella parte relativa ai “quattro fondamenti della presenza mentale” troviamo il “dimorare praticando la contemplazione dell’oggetto mentale negli oggetti mentali” e: “Egli dimora contemplando i fattori della nascita nella mente, dimora contemplando i fattori della dissoluzione nella mente […] fino a giungere alla mera conoscenza e piena presenza mentale. Egli dimora libero e nulla brama al mondo” (cfr. La rivelazione del Buddha, a c. di C. Cicuzza, Mondadori, Milano 2001, 337, 346 s.).

6) Dei sei mondi (sad-gati) si parla nel primo capitolo del Sutra del Loto ma tale suddivisione delle sfere dell’esistenza sensibile è reperibile in tempi anteriori, nella cultura indiana. Gli spiriti combattivi (asura) vengono considerati da alcuni autori dei semidei, quindi in posizione intermedia tra gli uomini e i deva (dei o esseri superiori). I primi tre mondi o destini sono considerati una sventura. Oltre che rigide classi di esseri “geneticamente” diversi gli uni dagli altri, è bene considerare queste categorie come immagini di diverse situazioni dell’animo umano che si possono riprodurre, perpetuare per lungo tempo anche per vite intere. Interessante notare che Yokoyama Sodō, in questo caso, considera tutte queste situazioni alla pari sul piano dello smarrimento, ossia sono situazioni, metafore di possibili modi di esistenza in cui è assente la via di liberazione insegnata dal Buddha: la consapevolezza della propria ordinarietà.

7) Ossia: situazioni in cui è assente il Risvegliato che siamo nel momento in cui ci rendiamo conto di non essere altro che delle persone ordinarie.

8)  Non sono certo del significato di questa frase: sino a questo momento non sono riuscito a reperire l’originale giapponese di questa lettera e la traduzione inglese sulla quale lavoro, in questo caso, non è univoca. Tuttavia penso che si possa ragionevolmente supporre che essa significhi: se noi consideriamo l’illusione “diavolo, demonio” allora ci è chiara la sua natura fuorviante, ovvero ci è chiaro che seguire le illusioni ci può condurre all’inferno. D’altro canto se vediamo che il diavolo non è che un’illusione subito perderà i suoi poteri e scomparirà così come scompaiono tutte le illusioni.

9) Questo è uno dei passi più interessanti dell’intero componimento. Vi si trovano due affermazioni fondamentali: quando la nostra vita è immersa nello zazen, quando percorriamo la via della pace, la via del Buddha, non importa quanti pensieri ci passino per la testa, essi scompaiono come i sogni al mattino, al nostro risveglio. La seconda: zazen, ossia essere buddha, consiste nel trasformare i pensieri in sogni. Questa affermazione nasce dall’effetto combinato delle due visuali ricordate nelle note 2 e 4. Ovvero: dall’osservazione delle reali condizioni della nostra mente durante zazen (dimorare praticando la contemplazione dell’oggetto mentale negli oggetti mentali) possiamo renderci conto della quantità continua di queste “insorgenze”, percependone la loro natura illusoria, così possiamo essere coscienti della realtà di sogno nel quale ci troviamo (soltanto al momento del grande risveglio sapremo che s’era trattato di un grande sogno… e io che dico che sognate, sono io stesso un sogno). Trasformare le illusioni in sogni è il fulcro dell’illuminazione.

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