Seconda parte

Dicevamo che la dotazione minima affinché si possa parlare di buddismo è composta da tre elementi: etica morale, pratica del corpo e consapevolezza. Questo significa che l’identità profonda del buddismo si trasmette attraverso questi tre elementi.
I quali, per quanto apparentemente semplici, essendo come detto di natura esperienziale richiedono una particolare sequela, un contatto diretto affinché possano essere trasmessi da una generazione all’altra. Ecco quindi identificato, almeno nei limiti della esposizione odierna, il senso dell’iniziazione: un rapporto diretto, prolungato con un anziano in grado di mostrare nella quotidianità come si viva secondo il buddismo.
Proviamo ora ad esprimere con le parole proprio quello che, lo abbiamo detto, si trova oltre parole perché appartiene alla vita viva e perciò è stretto, limitato quando si trova all’interno di una esposizione verbale.
Cominciamo dalla pratica del corpo.
Il punto focale da cui tutto si origina va identificato nel momento in cui Śākyamuni, diviene il Buddha, il “Risvegliato” oppure “Colui che ha compreso” secondo un’altra scelta traduttiva della parola buddha. Chiariamo che non è un risveglio “da” con il conseguente uscire da tutti i sogni per entrare in una sorta di realtà vera priva di sogni e illusioni, diversa da quella che ciascuno di noi vive.
E, neppure, buddha è “colui che ha compreso qualche cosa”, il contenuto di un pensiero di tipo concettuale o discorsivo o una concatenazione logica: questo sarebbe facilmente enunciabile e definibile, proprio perché nel momento in cui “qualcosa” è concepito come pensiero lo è già in una forma riproducibile alla portata di altre menti.
Il primo fatto che occorre notare è che prima, dopo e “in quel momento”, ovvero nel momento del risveglio, il Buddha era seduto. Non passeggiava assorto per il bosco, non era concentrato nella lettura di un testo sapienziale.
Quello star seduto è il punto culminante della tradizione precedente, proprio dove questa passa il testimone al futuro: il risveglio avviene all’interno della forma base dello Yoga/Dhyāna che poi nelle varie scuole sarà Chan/Zen/Zazen/Zogchen/Samatha vipassana… ovvero la forma della meditazione seduta.
E questo star seduti non è al modo delle tradizioni che lo avevano prodotto, ossia una tecnica per realizzare qualche cosa: sia essa la conoscenza, la libertà dal dolore, la purificazione… quello star seduti è già la forma del risveglio.
Sul finire della notte, all’impallidire della Stella del Mattino, si compie l’identificazione tra 1) colui che siede, 2) lo star seduti e 3) il risveglio.
Quindi il punto primo della trasmissione, o iniziazione che dir si voglia, è il come globale, complessivo di quello star seduti.
Nei secoli si sono usate alcune espressioni che oramai sono entrate nella storia, ma in sintonia con il tipo di esposizione che stiamo facendo oggi poniamo l’attenzione su un particolare di questo star seduti: non si tratta di costruire, fabbricare conoscenza o pensieri ma, al contrario si tratta di lasciare, abbandonare, non trattenere.
Raimon Panikkar, ha coniato un’espressione che soddisfa sia la dialettica cristiana che quella induista, ovvero le due culture per lui fondanti, e dice: quello star seduti è una sorta di offerta sacrificale dell’umano.
Per spiegare le ragioni di questa affermazione ricordiamo che in quello star seduti gli occhi sono aperti…. ma non vi è nulla da vedere; le orecchie possono udire… ma nel silenzio non vi è nulla da udire; la lingua riposa contro il palato per cui sapori e parole sono esclusi; il naso si occupa della respirazione ma non ha odore da annusare; le mani riposano in grembo perciò non vi è tatto né oggetti da afferrare; le gambe incrociate rinunciano alla loro qualità costitutiva: la mobilità. La mente è desta e pronta ad afferrare e rinvangare ogni pensiero ma… non vi è nulla da pensare; il cuore è pronto ad odiare ed amare con intensità ma… non vi è nulla e nessuno sul quale riversare il nostro odio o il nostro amore. Per cui riprendendo in altro modo l’espressione di Panikkar, quello star seduti è un donarsi integrale.
Vediamo ora il senso dell’altro elemento base identitario del buddismo: l’etica morale. L’atto di fondazione del buddismo, l’istante che dà inizio alla cerca in cui di fatto consiste questa via pragmatica, è il momento nel quale Siddharta lascia la reggia, la moglie, il figlio appena nato per porsi sul cammino che conduce alla soluzione della sofferenza.
È chiaro che per non essere una fuga nel privato il motivo per cui un un adulto, a sua volta padre e marito, abbandona di nascosto padre, figlio e moglie condizionando fortemente e negativamente la vita di tutti e tre, non può essere né futile né egoistico: un atto del genere non si giustifica con il soddisfacimento di nessuna delle istanze umane.
La liberazione di cui è alla ricerca Siddharta è quella che scioglie dalla sofferenza ineluttabile, quella radicata nell’essere uomini, esseri di questo mondo: ovvero: il pianto della nascita; la menomazione della malattia; il declino della vecchiaia; il patire della morte; la lacerazione del venir separati da ciò che amiamo; il dolore del non riuscire ad avere, possedere ciò che desideriamo; il fastidio per tutto ciò che detestiamo e non possiamo evitare.
Il voto iniziale che lui compie lasciando la sua casa, ovvero quello di dedicare a tutti gli esseri il suo cammino di ricerca, anticipa quella che poi sarà la scelta definitiva della sua vita: 45 anni donati alla predicazione ed alla testimonianza che esiste una via, un percorso possibile che conduce e mantiene in salvo dal patire dell’uomo su questa terra.
E siccome quel percorso libera da qualchecosa che è intimamente legato alla vita, che fa parte della vita, la logica conclusione è che si tratti di una soluzione trascendente: altrimenti dovrebbe negare la vita.
Nella vita giornaliera della Comunità antica, la predicazione del Buddha si svolgeva legata ai fatti quotidiani, solo molto più tardi, forse verso il quarto secolo a.C., si composero opere che contenevano indicazioni di natura generale.
Per quanto sembri relativamente facile dare un consiglio morale su un fatto specifico basandosi sulla propria esperienza, è invece molto difficile definire dei termini di comportamento che abbiano valore generale; infatti il punto di vista “generale” è sovrumano.
Quando si cominciarono a compilare i sutta (termine pali equivalente del sanscrito sūtra) le indicazioni etiche furono di due tipi: quelle inderogabili perché parte del cammino stesso, e quelle legate alla convivenza in comunità o all’interno del contesto socioculturale del momento.
Le prime sono legate a comportamenti spesso riassunti con termini quali metta, “amicalità”, karuṇā, “amore compassionevole”, ahiṃsā letteralmente “in-nocenza”, solitamente tradotto con “non-violenza”.
Ovvero tutti termini che rimandano ad un comportamento personale che privilegia il dare, il donarsi ossia l’assecondare con il comportamento quotidiano il movimento dello spirito e del corpo durante quella che abbiamo definito la pratica del corpo.
Il secondo gruppo di indicazioni, che a poco a poco si strutturarono in un vero e proprio codice, il vinaya, riguardava invece il modo più saggio e meno doloroso di trascorrere la vita. Indicazioni cioè per star fuori dai guai, dissolvere o sopire i guai già commessi o per aumentare le ore serene nella nostra esistenza.
Siccome sono norme sagge ma non inderogabili, legate “solo” all’opportunità di non caricarsi sulle spalle più pena di quella che in ogni caso ci tocca portare, non sono propriamente legate al buddismo, ma alla sua inculturazione: in un’altra circostanza, in un’altra realtà possono cambiare.
Così come abbiamo visto che la pratica del corpo consiste in una tensione interiore ed esteriore che possiamo riassumere con “non trattenere”, “non aggrapparsi”, quel tipo di etica morale che fa parte del bagaglio di base del buddismo è intimamente legata allo stesso tipo di movimento interiore ed esteriore: il donare o donarsi che comportano l’amicalità e l’atteggiamento benevolente.
Qui possiamo ricorrere alla cultura cristiana per rappresentare con un’analogia questi due atteggiamenti coincidenti: se la pratica del corpo la descriviamo con l’atteggiamento spirituale chiamato “sia fatta la tua volontà”, l’etica morale è quella improntata al senso espresso dalla parabola del samaritano: una situazione nella quale si risponde alla realtà che ci chiama in causa senza essere in alcun modo coinvolti da atti precedenti, e senza chiedere o aspettarsi nulla in cambio.
Resta da mettere in chiaro il terzo punto, quello che abbiamo definito sia consapevolezza, sia gnosi, sia angolatura visuale. Nel buddismo, uno dei punti di rottura dottrinale con la cultura precedente consiste nella forte affermazione nota come ānatman, pronunciata dal Buddha in risposta ad una credenza radicalizzatasi nel brahmanesimo della sua epoca. Una credenza nata in seguito alle affermazioni upanishadiche secondo le quali atman, ovvero “sé”, “anima individuale”, e brahman, “spirito divino” o “spirito cosmico”, sono coincidenti. Per cui la via di liberazione dell’uomo consisteva, in termini upanishadici, nel far coincidere il sé personale con il Sé divino.
Dal punto di vista della pratica religiosa questo in molti casi conduceva ad una scelta ascetica all’interno della quale, tramite il digiuno, il controllo della respirazione o, addirittura, il controllo del battito cardiaco si praticava, di fatto, la rinuncia alla vita in quanto azione attiva di partecipazione al mondo, per ritornare allo stato di purezza originario dove atman e Brahman sono indistinguibili.
Questo aveva portato ad una sorta di credenza, consistente nell’affermazione di un’anima individuale, un io spirituale esistente in modo, diremmo oggi, ipostatico o reificato.
Per cui, tra l’altro, la credenza nella reincarnazione e nelle successive rinascite si era generalizzata e non solo a livello polare. La scoperta del Buddha, invece, verteva sull’impermanenza di questo mondo, sulla sua natura illusoria proprio a causa della mancanza di un io inteso come un elemento indistruttibile, positivo, alla base di ogni cosa e di ogni essere vivente.
Le cose e gli esseri viventi, sostiene il Buddha in base alla sua esperienza del risveglio, hanno un’esistenza interdipendente; nel riconoscere questa globale interdipendenza in tutto il cosmo, sia nel micro che nel macro, ne discende un tipo di consapevolezza che riconosce il vuoto come sostanza base di ogni cosa.
Oppure, da un altro punto di vista, che la vita di ogni essere, di ogni cosa è garantita da una serie elevatissima di relazioni e non da un nocciolo permanente.
Questo è la modalità nella quale avviene la nascita cioè l’unirsi degli aggregati, è il modo e il motivo in cui c’è la morte, che è il loro disgregarsi; è il modo e il motivo per cui c’è sofferenza, dal momento che ignari di tutto ciò ci aggrappiamo col desiderio ad un mondo impermanente. Contemporaneamente questa visuale offre la soluzione della sofferenza dal momento che la sua causa diviene chiara.
Notiamo che, anche in questo caso, il riconoscimento che la soluzione della sofferenza non è tra le cose di questo mondo conduce a non aggrapparsi ad esse. Ovvero la stessa direzione nel cui alveo già abbiamo visto trovarsi sia l’etica morale che la pratica del corpo.
Per cui il senso di “non aggrapparsi” unisce i tre elementi trasformandoli in tre parti di un unico processo. Al punto che una delle parti non può sussistere da sola mettendo da parte le altre due senza snaturare completamente il messaggio del Buddha: senza etica morale la pratica del corpo e la visuale del vuoto conducono al cinismo ed al nichilismo. Senza pratica del corpo l’etica e la visuale dell’impermanenza sono pensieri vani, privi di efficacia nella nostra vita. Senza la visuale del vuoto, etica e pratica del corpo non hanno direzione, non hanno senso: perché dovremmo donare comprensione e amicalità? Perché dovremmo praticare il non aggrapparsi? Se le cose hanno sostanza, ciò significa che la soluzione è nel possederle, per cui viene a mancare qualsiasi motivo per la pratica e per la ricerca del bene come base delle nostre relazioni.
Per concludere, si può assumere con una certa approssimazione che l’iniziazione buddista consista nella trasmissione da persona a persona del come funzionano nella vita quotidiana i tre punti base.
E siccome tutti e tre presuppongono una comprensione che inevitabilmente passa attraverso la vita vissuta ne consegue che l’iniziazione buddista, al di là di riti, cerimonie e forme legate ad una certa cultura o a un certo tempo, consiste nella sequela, nell’accostare la nostra vita con una persona che già percorre quella via.
Ecco perché il buddismo parlato non esiste, ecco perché si dice che il Buddha non ha mai detto neppure una parola, ecco perché sbagliamo se pensiamo che quello che avete udito e quello che ho detto sia il buddismo.

Se volete, lasciate un commento.

You must be logged in to post a comment.

Archivi