(Parte seconda)

La fede secondo il buddismo

La realtà della fede secondo il buddismo ha un’economia completamente personale, non si appoggia a nulla fuori di noi né si comunica ad altri come fosse un credo, non vi è infatti un credo. La forma verbale che la tradizione ha dato a questo moto dello spirito la troviamo già nei sutra più antichi: «Non credete neppure nelle mie parole, prendete rifugio in voi stessi e non in altro» (4). È un modo puro di considerare la fede, supera la necessità di un oggetto o di un contenuto, rimanendo un atto positivo dello spirito. Però, siccome ogni discorso su ciò che non ha contenuto rischia di creare artificiosamente proprio un contenuto, per il momento, per quello che riguarda la fede è bene fermarsi qui.
Se osserviamo i quattro elementi che ho elencato, vediamo che hanno tutti un punto in comune: si fondano sul non afferrare, oppure, da un altro punto di vista, si fondano sulla gratuità. È gratuito infatti l’atteggiamento etico che abbiamo definito genitoriale, nei confronti della nostra realtà di vita. Se non fosse gratuito non sarebbe quel tipo di cura, se avesse un interesse recondito, un premio da conquistare non lo potremmo definire in quel modo: un genitore che accudisce un figlio per interesse, qualsiasi esso sia, nella migliore delle ipotesi è un egoista. Significa muoversi per il bene senza mirare a un tornaconto, anche quando quel bene va palesemente a nostro svantaggio.
Un tale comportamento deve avere alle spalle, oltre alla gratuità, la non negazione dell’esistenza della sofferenza dell’altro, altrimenti sarebbe insensato. L’esperienza permette di affermare che anche la sofferenza è uno stato illusorio: l’impermanenza non fa sconti (5), ma quando l’illusorietà del dolore non è realizzata (6) è comunque vero patire. L’intervento tra le persone e le cose, seppure pro bono, è un coinvolgimento nelle difficoltà del mondo, ci mette in gioco tra le onde del bene e del male, è un momentaneo afferrare e perciò, in qualche misura, ci farà soffrire quindi, da un punto di vista relativo, mondano, è un errore. È un errore necessario, obbligato nei confronti di una realtà che ci chiama in gioco come umani tra gli umani: è prenderci cura della vita, di tutta la vita, anche nostro malgrado. È il prezzo che l’uomo paga nell’essere completamente umano.
La stessa caratteristica di gratuità, poi, si può trovare nella consapevolezza dell’impermanenza, ovvero la coscienza della radicale caducità, provvisorietà del nostro mondo/vita: se vissuta con limpidezza, porta anch’essa al non afferrare, al non aggrapparci a persone o cose perché tutto è precario, mortale e quindi il possesso non è il bene sul quale conviene investire, destinato com’è al fallimento. E il senso di non possesso, di non accumulazione è uno dei volti della gratuità.
Guardiamo poi allo star seduti in pace, o zazen che dir si voglia. Quello è un momento di completo lasciare:

– le mani non toccano nulla per cui rinunciamo al tatto
– si sceglie un luogo silenzioso, per cui rinunciamo all’uso dell’udito
– si brucia un incenso che dà un odore sempre uniforme per cui rinunciamo all’odorato
– la lingua poggia contro il palato, per cui rinunciamo al gusto
– davanti a noi c’è un muro, per cui rinunciamo ad ogni visuale
– le gambe sono incrociate, per cui rinunciamo alla mobilità
– durante lo zazen si tace, per cui si rinuncia alla parola.

Il punto più delicato è che durante lo zazen rinunciamo a portare a compimento ogni pensiero e ogni sentimento; rimanere svegli, tornare ad essere svegli implica l’abbandono dei sogni. Anche la parte più sottile del nostro essere, cessando di afferrare, si pone in una condizione di rinuncia, una rinuncia gratuita perché non realizza alcun ottenimento. È l’uscita dall’umano.
Infine la pratica della fede vuota: non avendo alcun tornaconto, il sostegno della fede mostra la sua gratuità nella completa assenza di una meta o di un contenuto pensabile. Mi permette di essere ciò che sono e di seguire il mio cammino, nulla più, senza neppure offrire la consolazione di un… Consolatore.
Di fronte a un tale capillare programma di gratuità, che nel caso del “prendersi cura” è addirittura in perdita, qualcuno potrà pensare: ma se in ciascuna delle condizioni, quella etica, quella cognitiva, quella dello zazen non ne ricavo nulla, qual’è il merito di tutto ciò? Ovvero, perché dovrei impegnarmi su questa strada? Proprio qui, per compiere il passo successivo entra in gioco il sostegno della fede, la saldezza di un animo fiducioso.
Infatti, la risposta alla domanda sul perché dedicarsi a cose che non fruttano nulla è radicata nella motivazione di base, nell’istanza che ha portato alla nascita di questo percorso religioso: il problema a cui la religiosità buddista offre una via di soluzione non è un problema materiale, non è un problema di accumulazione, spirituale o materiale che sia, né un problema di raggiungimento di una condizione sociale e neppure l’acquisizione di un’identità di gruppo. Quello da cui parte lo sviluppo del cammino buddista è il problema dell’infelicità, della sofferenza esistenziale, riassunto nei sei esempi classici (7):

– il dolore di vedere le proprie energie, le proprie possibilità vitali esaurirsi nella vecchiaia
– il terrore e il dolore che nascono dal rifiuto della nostra e dell’altrui morte
– l’angoscia della malattia
– il dolore della perdita
– il dolore del non ottenimento
– il dolore di dover convivere con persone o situazioni che ci generano sofferenza.

Questo e non altro è il campo d’azione del buddismo, quindi, se lo interroghiamo, lo mettiamo alla prova, queste e non altre sono le promesse di cui gli dobbiamo chiedere conto.
Con in più una piccola grande sorpresa, che però all’inizio, quando ci risolviamo alla pratica religiosa, è del tutto inaspettata, altrimenti non sarebbe una sorpresa: la scomparsa della sofferenza esistenziale non è la realizzazione del nulla, o un semplice svuotamento che ci consegni ad una vita priva sì di angoscia, ma priva anche di vitalità. La realizzazione secondo l’insegnamento buddista conduce verso una forma di pienezza naturale, ovvero non generata, non condizionata dalle conquiste e dall’accumulazione delle cose del mondo. Per questo all’inizio ho parlato di “esperienza diretta del divino” non per chiamare in causa un aspetto teista, dal momento che nel buddismo non si parla mai di Dio, ma per indicare la fruizione di un bene fuori da ogni aspetto mondano, slegato da qualsiasi tornaconto e ottenimento. Un bene che si genera legando il proprio cuore all’increato, per usare le parole della tradizione. Nel parlarne però, nasce un problema, perché quella che poc’anzi ho definito pienezza, diventa facilmente un’aspirazione, una preda da raggiungere, e questo ne annulla la possibilità perché quella pienezza si manifesta proprio nel non desiderare, nel non afferrare.

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Note:
(4) Si veda per esempio: «Siate un’isola per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro», cf. Mahāparinibbānasuttanta (Il grande discorso del[l’ingresso nel] nirvana definitivo), sez. II, v. 33. Oppure: «Il proprio sé in verità è rifugio di se stesso», cf. Dhammapada (Parole di dhamma), 12.4 (160).
(5) Seppure non esista qualche cosa che chiamiamo “impermanenza”, troviamo scritto: «La non esistenza di ciò che esiste è il risultato dell’impermanenza», cf. The Lankavatara Sutra. Translation and Commentary, a cura di R. Pine, Counterpoint, Berkeley Ca 2012, p. 228. Si veda anche: «Ciò che sorge/appare non è né permanente né impermanente. Perché? Perché l’esistenza esterna non può essere determinata», ibid., p. 231.
(6) Realizzare l’illusorietà del dolore, dell’infelicità, non è un ragionamento, è un’attività spirituale possibile nell’accordare il passo della propria vita alla pratica dello zazen.
(7) Cf. Dhammacakkapavattanasutta (Discorso della messa in moto della ruota del dhamma), Saṃyutta Nikāya, 56.11.

mym, Ottobre 2014

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