When the saints go marching in

Vi sono, schematicamente, due modi di essere coinvolti in problemi che non essendo né materiali né tecnici, né fantastici né patologici in senso stretto, riguardano quell’ambito che in Occidente è etichettato con “religione”. Per brevità, per indicare questi due modi uso l’efficace rappresentazione che delle due modalità fece Simone Weil (1) seppure riferendosi al solo cristianesimo: vi è la religione dei mistici e l’altra. Per “religione dei mistici”, intendiamo l’esperienza diretta del divino. Con “l’altra” intendiamo tutto il resto. Come è noto, il buddismo nasce in risposta alla percezione dell’infelicità, ovvero di quel dolore di vivere che nasce in noi pur innocenti solo perché nati e viventi in questo mondo, e di quel dolore che sboccia in noi quando invece innocenti non siamo.
Questa proposta religiosa si sviluppa poi in un percorso reale, ovvero non immaginario o legato ad adesioni ideali, che consiste nella dissoluzione del male di vivere, ossia nella dissoluzione dell’infelicità. Non in un’altra vita, in un dopo o in un altrove, ma nella vita di ogni giorno, trasformata dal di dentro. Una vita in cui tutto apparentemente rimane come prima: invecchiamo, ci ammaliamo e moriamo, attorno a noi le persone care svaniscono nella morte, quelle che non vorremmo accanto a noi… sono sempre qui; perdiamo ad una ad una le persone e le cose che amiamo e non riusciamo ad avere quelle che vorremmo… ma dentro di noi non si sviluppa quell’amarezza che avvelena, e quando si sviluppa: in un lampo scompare.
E poi, giorno dopo giorno, imparando ad immergerci nel bene – un bene che non avendo nulla a che fare con i beni terreni potrebbe esser scritto con la lettera maiuscola – pur tra grandi difficoltà, il tempo scorre senza ferirci, e laddove si produca una ferita, il tempo della guarigione non è amaro.
Ho usato l’espressione “immergerci nel bene” volendo esprimere l’esperienza dello zazen, ovvero dello star quietamente seduti nel vivo silenzio immobile, pratica fondamentale e fine a sé stessa che caratterizza, seppure in modo non esclusivo, quell’area della religione buddista nota come Zen. Più estesamente, “Zen” è il nome odierno di quella parte del buddismo che, dalle origini, cerca di mantenersi aderente alla modalità prima descritta con le parole “esperienza personale del divino”. Nella nostra vita però, il tempo dello zazen nel quale siamo quietamente seduti nel “bene”, non è tutto il tempo, ve n’è molto altro nel quale interagiamo con le persone e con gli oggetti che compongono la nostra vita.
Allora il nostro programma di “bene” e di dissoluzione dell’infelicità per essere davvero efficace, deve comprendere anche il tempo delle relazioni, del lavoro, dello svago e del riposo altrimenti in realtà non potrà funzionare.

Gli insegnamenti del Buddha – che, ricordiamo, hanno come unica finalità quella di condurci e mantenerci sul percorso che consiste nella dissoluzione della sofferenza, edificando la pace – poggiano su quattro elementi cardine:

– una vita etica
– la consapevolezza dell’impermanenza
– la pratica dello zazen
– il sostegno della fede.

Vediamo molto brevemente ciascuno di questi quattro elementi. Con vita etica, intendo un atteggiamento di base che ci veda genitori nei confronti di tutta la realtà, dentro e fuori di noi. Padri e madri di ogni situazione che attiviamo direttamente e, certo, con diversi livelli di coinvolgimento, di tutte le persone e le cose con le quali comunque veniamo in contatto. La caratteristica che distingue un genitore è quella di aver cura, attenzione, piena accoglienza nei confronti dei propri figli. Per questo uso la metafora del genitore: l’atteggiamento etico proposto dal buddismo è quello di chi si prende cura.
Il secondo punto è quello che ho definito “consapevolezza dell’impermanenza”. Non si tratta certo di pensare con piacere alla propria morte e a quella dei propri cari. Considerare la realtà dell’impermanenza non significa nichilismo. Piuttosto è sviluppare la serena coscienza del fatto che noi, le persone attorno a noi, gli oggetti, ogni cosa ha una vita limitata e quindi presto o tardi tutto scomparirà. Anzi, possiamo dire che stia già scomparendo. Non è quindi una sorta di pessimismo o di masochismo, piuttosto si tratta di aprire gli occhi ad una realtà di vita che pone noi stessi in una corretta dimensione rispetto al tempo e quindi rispetto alla scala di valori che usiamo vivendo.
Il terzo elemento, ed è quello che maggiormente caratterizza la scuola zen, è la pratica che in giapponese è detta zazen (2). Semplificando al massimo, possiamo dire che lo zazen consista nello stare seduti immobili, in silenzio, davanti ad un muro. Questo sarebbe tutto ciò che c’è da sapere; tuttavia siccome è normale sentirsi sconcertati a fronte di una pratica per molti insolita o sconosciuta dedichiamo qualche minuto all’argomento.
Se risaliamo al racconto iconografico (3) nel quale consiste la biografia dei primi 36 anni di vita di Siddhartha Gautama, vediamo che all’atto di diventare il Risvegliato, ovvero il Buddha, era seduto, in silenzio, immobile sotto ad un albero. Quello star seduti è quindi la forma umana del risveglio, purché sia quello star seduti, ci si sieda allo stesso modo del Buddha. Ovvero con la schiena eretta, le gambe incrociate, le mani posate sui talloni, lo sguardo rilassato e la respirazione spontanea, silenziosa. L’aspetto qualificante è che seppur si tratti di stare semplicemente e solo seduti, accade naturalmente che, appena ci siamo accomodati sul cuscino, appena abbiamo raddrizzato la schiena e incrociate le gambe un pensiero sorga nella nostra mente. Poiché non siamo seduti con l’intento di pensare ai fatti nostri, ci svegliamo al nostro presente, raddrizziamo nuovamente la schiena e… quasi subito cominciamo a seguire un altro pensiero. Appena ce ne accorgiamo si tratta di uscire dal nuovo sogno ad occhi aperti… e poi ancora e ancora occorre continuare così: senza cedere alla tentazione di elaborare i pensieri, uscire dal sogno di quel momento. L’obiettivo, però, non è scacciare i pensieri: la cosa veramente importante è rimanere svegli, tornare ad essere svegli ogni volta che ci perdiamo nei sogni. Per non sognare occorre svegliarsi e perciò abbandonare i sogni, per questo si parla di lasciare andare, di non seguire i pensieri. Questo è zazen.
Il quarto ed ultimo elemento è il sostegno della fede. Un tipo di fede diversa dalla comune accezione che diamo a questo termine. Per rappresentarla possiamo dire che fede nel buddismo ha il senso opposto di quello che, nella cultura cristiana, si intende con idolatria. Con una piccola chiosa: ogni oggetto di fede è da considerarsi un idolo. Per cui fede in senso buddista non significa né credere a, né credere in, ma credere e basta. La fede buddista è la semplice espressione di un cuore fidente. C’è chi ha definito questo atteggiamento “ottimismo ontologico” e la sua funzione è di sostenerci nell’affrontare le mille difficoltà che ci troviamo di fronte sulla via religiosa. Un cuore fidente non si scoraggia, si rinnova e guarda avanti. Ma la fede secondo il buddismo non è certezza né «dimostrazione di cose che non si vedono», come dice la Lettera agli Ebrei (Eb 11,1). È un sentimento appena un passo oltre la speranza, è attraversata dal dubbio e nutrita dall’esperienza. Per questo fede ed esperienza devono procedere assieme, perché una sostiene l’altra.

Note:
(1) Cfr. S. Weil, Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1996, p. 42. Originale: Lettre à un religieux, Paris, Gallimard, 1951.
(2) Termine che è entrato intradotto nel lessico occidentale, letteralmente significa “sedersi zen”. Ogni buddismo ha la sua dizione seppure vi siano alcune differenze; si veda per esempio samatha-vipassanā (lett. “dimorare nella pace-visione profonda”) nel Theravāda e dzogchen (lett. “grande perfezione”) nel Vajrayāna, comunemente detto “buddismo tibetano”.
(3) Cfr. Buddhacarita (Le gesta del Buddha), di Aśvaghoṣa, II secolo d.C.

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