“Ora bisogna ubriacarsi, e che ciascuno beva anche per forza: perché Mirsilo è morto…” (Alceo, fr. 332 V.).

Così, con irriverente entusiasmo, risponde alla morte del tiranno il poeta Alceo, nato a Mitilene nell’isola di Lesbo attorno al 630 a.C. e vissuto nell’isola fin verso il 560 a.C., conterraneo e quasi contemporaneo quindi di Saffo,

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di cui rappresenta la “controparte” maschile cantando i temi propri delle eterie, le congreghe di giovani aristocratici in cui essi si riuniscono per esercitare le attività proprie della loro classe sociale. Nel frammento sopra riportato ne compaiono due tra le più consuete, che sono anche i temi ricorrenti della poesia di Alceo: l’esecrazione del tiranno e il rituale collegato al vino.

Nelle piccole società della Grecia arcaica le famiglie aristocratiche detengono l’egemonia politica, sociale, culturale, economica, a volte condividendola, a volte contendendola tra loro; il tiranno è l’uomo che, appoggiandosi al demo, cioè al popolo, si adopera per porre un freno al loro strapotere e alle loro risse. Da qui l’odio nutrito verso di lui dagli aristocratici, alla cui classe appartengono anche gli scrittori che ci hanno trasmesso in varie forme letterarie le vicende di allora facendo sì che la parola stessa “tiranno” assuma una connotazione fortemente negativa, diventi il simbolo di ciò che di più odioso può esserci per la libertà. E’ vero che nel corso della storia successiva non mancano tiranni che hanno giustificato in pieno tale valenza attribuita al loro nome…

Legatisi tra loro con solenni giuramenti di fedeltà e reciproco aiuto nel sodalizio che ha nome eteria (da etairos, compagno), Alceo e i suoi compagni, tra cui Pittaco,

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trascorrono il loro tempo tra le libagioni con cui alternativamente ora si accendono l’un l’altro contro l’odiato Mirsilo, ora placano quello e ogni altro cruccio. Nella cultura maschile il vino, la cui origine divina è dimostrata dal trasformarsi del frutto dell’uva, con una magica metamorfosi, in bevanda inebriante, ha un ruolo importante in quanto, proibito alle donne e bevuto nel simposio seguendo precise norme rituali, favorisce lo stringersi dei vincoli di familiarità e di intimità.

“Beviamo. Perché aspettare le lucerne? Il giorno è (corto come) un dito. Tira giù, mio caro, grandi coppe multicolori: il vino infatti il figlio di Zeus e Semele (scil. Dioniso) diede agli uomini come rimedio ai mali. Versa mescolando una parte d’acqua con due di vino, e una coppa segua subito l’altra…” (346 V.).

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E ancora:

“Inonda di vino i polmoni, infatti la canicola compie il suo giro e la stagione è opprimente, ogni cosa è assetata sotto la vampa del sole, la cicala risuona dolce dalle fronde e il cardo fiorisce. Ora le donne sono impure quanto mai, e gli uomini emaciati, Sirio dissecca la testa e le ginocchia.” (347 V.).
Un tentativo di scalzare Mirsilo dal potere fallisce, e Alceo è costretto all’esilio.

“Privo di colpe nella vita, io infelice vivo avendo in sorte una vita selvatica, desiderando udire la piazza che grida, o Agesilaide, e il consiglio…: quelle cose con le quali mio padre e il padre di mio padre sono invecchiati, da queste io sono escluso, in fuga nelle terre più lontane, come Orimache io da solo abito tane da lupi… al santuario degli dei beati calcando la nera terra, in questi sodalizi abito coi piedi fuori dai mali… dove si vedono le fanciulle lesbie dai lunghi pepli distinte per la bella figura, e attorno all’altare divino fragore di donne in sacre invocazioni nelle cerimonie annuali…” (136b V.).

Pittaco invece si accorda con Mirsilo con cui, in un primo tempo, collabora al governo della città. Forse si riferisce a questo inaspettato “tradimento” il più famoso dei frammenti di Alceo, il quale non si rende conto di come ciò sia potuto accadere e, di fronte alla recisione del legame più vincolante, in base al codice d’onore dell’eteria, di quello del sangue, si sente sballottato come una nave in mezzo alla tempesta:

“Non capisco questa discordia dei venti, l’onda si avvoltola questa di qua, quella di là, e noi siamo portati al largo con la nera nave, molto affannati per la grande tempesta: l’acqua della stiva infatti avvolge la base dell’albero maestro, e ogni vela è lacera, e grandi stracci lungo di essa, e le sartie si allentano, e i timoni (…) e almeno le scotte (…) in funi di papiro: questo solo ancora potrebbe salvarmi…” (208a V.).

Dopo la morte di Mirsilo, Pittaco resta solo alla guida di Mitilene. Gli amici – etairoi – della giovinezza non gli perdonano il tradimento del patto stretto allora e la voce di Alceo si alza a maledire e spregiare costui, che in seguito sarà dalla storia riconosciuto come un grande uomo capace di guardare oltre i ristretti confini di una cerchia di faziosi privilegiati per dare alla sua città una politeia più equa e di più ampio respiro:

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“(O dei), con animo benevolo ascoltate la nostra imprecazione, liberateci da questi affanni e dal triste esilio; sul figlio di Irra (scil. Pittaco) Erinni giunga vendicatrice di quelli (i compagni traditi): perché una volta abbiamo giurato con solenni sacrifici di non tradire mai e poi mai nessuno dei compagni, ma o giacere vestiti di terra morendo per mano degli uomini che allora erano padroni, o uccidendoli liberare il popolo dai mali. Tra loro il pancione non parlò col cuore, ma a cuor leggero mettendosi sotto i piedi i giuramenti, divora la nostra città…” (129 V., vv.9 sgg.)

La tradizione antica riferisce che, quando il poeta era ormai vecchio, Pittaco gli abbia consentito di tornare in patria. Forse poté allora pronunciare per sé l’esortazione che troviamo in un altro frammento:

“Su questo capo che ha molto sofferto versa profumo, e sul petto canuto” (50 V)

cc

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