Il testo che presentiamo è un discorso tenuto da Uchiyama Kosho, già abate del monastero zen di Antaiji in Giappone, nel febbraio del 1975 in occasione del suo ritiro. Quel discorso era motivato dall’intenzione di lasciare ai propri discepoli una traccia da seguire, condensando gli elementi essenziali della propria esperienza di uomo della via buddista. Non è un discorso di circostanza ma quella che definiremmo una lectio humana: una lezione per la vita, in cui procedono di pari passo la lettura delle indicazioni della tradizione religiosa buddista come luce che illumina l’esperienza della vita, e la lettura della propria esperienza esistenziale come specchio che riverbera la medesima luce sulle indicazioni della tradizione religiosa.

Il testo è già stato pubblicato sulla rivista La Stella del Mattino ( N. 2, ottobre – dicembre 2001) in versione rimaneggiata, avendone ridotto la lunghezza a poco più di un terzo del totale, in modo che fosse proponibile come ‘articolo’: mantenendo l’armonia e l’andamento dell’insieme, erano state selezionate le parti ritenute adatte anche al lettore laico, intendendo con ciò chi vive uno stile di vita che non esclude responsabilità sociali, di lavoro e familiari e distinto quindi da chi vive con modalità e ritmi di vita monastica o clericale.

Qui potete trovare tre versioni dello stesso testo. Che però, se avrete la pazienza di leggere e ascoltare, vedrete che lo stesso testo non è più. Infatti la prima versione, che si intitola Il cercatore della via. Ultimo discorso ad Antaiji è la nuova traduzione realizzata da Jiso G. Forzani sulla base del testo giapponese, a sua volta realizzato grazie ad una sbobinatura della registrazione del discorso tenuto da Uchiyama. È quindi un accesso diretto al testo originale, realizzato “col senno di poi” ovvero dopo quarant’anni di esperienza su quella stessa via di cui parla Uchiyama. Quindi anche il linguaggio, le modalità espressive dei modi di dire giapponesi che circolano da quasi mezzo secolo, sono nuovi, elaborati a partire dal loro senso e non dalla lettera, sino ad essere, a volte, irriconoscibili da chi si aspetta lo stereotipo. Molta acqua è passata sotto i ponti dal febbraio 1975, così alcune rappresentazioni della realtà tracciate da Uchiyama cominciano a mostrare la vecchiaia della trama e non sono più adatte a fornire un’immagine utile al praticante di oggi. In particolare nella terza parte, si usano ripetutamente le metafore dell’io innato e dell’io originario (volendo: sé e Sé) che pur rimandando sempre alla pratica dello zazen, nella quale scompare ogni immagine, costruiscono una sorta di metafisica che nell’ambito generale buddista potrebbe ancora -forse- avere un senso, ma in ambito prettamente Zen possiamo lasciar svanire, come è svanito nell’abisso del tempo quel pomeriggio di febbraio di tanti anni fa.

La seconda versione, intitolata Addio ad Antaiji. Ultimo discorso ad Antaiji di Kosho Uchiyama roshi è in qualche modo una versione “storica”, infatti è il risultato di una serie di operazioni che vanno dalla sbobinatura della registrazione del discorso del roshi alla traduzione dal giapponese in inglese di Shohaku Okumura ad una vecchia traduzione letterale in italiano curata da Yushin Marassi e Jiso Forzani durante la loro prima permanenza ad Antaiji, nel 1979, a ridosso dei “fatti” si potrebbe dire, ed infine un riadattamento da parte di Paolo Sacchi. Ne risulta uno scritto forse non molto scorrevole alla lettura, non sempre consequenziale, che però conserva un che dell’immediatezza, della freschezza e dell’impatto emotivo del discorso originale.

La terza versione è un audio libro. È la stessa opera ma in una forma ancora diversa, seppure derivata da quella ora tradotta da Jiso. Per renderla adatta alla versione audio, infatti, oltre a tutte le note, sono state eliminate alcune parti, inoltre, in considerazione del carattere evocativo della versione parlata, il testo del discorso è stato modificato per renderlo adatto alla lettura ad alta voce e all’ascolto anche di chi non ha precedente conoscenza dell’opera dell’Autore.

PS: chi volesse approfondire i temi trattati nel testo troverà qui un’intervista a Uchiyama Kosho, intitolata Zazen come Buddhadharma, realizzata pochi giorni prima della sua morte, ovvero a distanza di 23 anni dal giorno in cui pronunciò le parole che vi abbiamo appena presentato. È interessante constatare quanto in quell’arco di tempo il discorso si sia raffinato e condensato.

Versione moderna (2018) tradotta dal giapponese

Versione del 1979, tradotta dall’inglese

Versione audio-libro

4 Responses to “Addio ad Antaiji”

  1. filippo.monno Says:

    Ho trovato molto interessante questo testo, grazie per averlo tradotto! Attualmente è uscito un libro che si chiama proprio “Il cammino del cercatore” dello stesso discorso con un commento di Dai Do Strumia, molto interessante anch’esso.
    Volevo sapere se qualcuno ha provato a tradurre il libro “The Dharma of Homeless Kodo”.
    Grazie di tutto!

  2. mym Says:

    Di Sawaki in italiano ha tradotto varie cose Sono Fazion (le trovi qui), non so se però ha tradotto quel testo. Fazion non traduce dal giapponese. Con ogni probabilità il testo lo trovi tradotto in inglese nel sito di Antaiji (trovi il link in home, a destra in basso). Ciao, mym

  3. marta Says:

    Conoscendo Uchiyama solo attraverso le sue parole scritte e quelle dei suoi discepoli, ascoltare il suo discorso attraverso una voce, è stato come avere un incontro personale. E per questo ringrazio.
    Lo zazen di Uchiyama soprattutto quello delle sesshin è uno zazen nudo e così essenziale da sembrare ‘duro’ e ‘freddo’ nonché ‘solitario’. Percezione che talvolta non può essere che condivisa. Ma la pratica dello zazen che avverto, dalla vita di Uchiyama prima e dalle sue parole poi, è una pratica calda, che fa affiorare la densità del sangha, di ciò che è la vita di tutti quelli che percorrono la Via indicata dal Buddha Shakyamuni.
    Il suo discorso era rivolto ai suoi discepoli. Ma in qualche modo partecipare all’ascolto delle sue parole ci rende parte di essi. Soprattutto se questo ascolto è vivificato dalla pratica di uno zazen senza scopo e senza aspettative come Lui lo ha vissuto.
    Unico scopo, o forse meglio è dire direzione o voto, è contribuire a mantenere un luogo di pratica per tutti che coloro che sinceramente vogliono seguire la Via.
    E questa direzione è il dono che sento ha fatto Uchiyama ai praticanti lo zazen.
    Un saluto a tutti.

  4. mym Says:

    Ciao Marta! Bentornata e buon anno.
    Concordo con quello che dici. Ovviamente non possiamo far altro, nel ‘conoscere’ Uchiyama, che basarci sulle sue parole. Parole che da mezzo secolo indicano un percorso pulito, scevro da fronzoli e aggiunte estemporanee. Tuttavia l’importanza principale dell’opera di Uchiyama non è in ciò che ha detto ma in ciò che ha fatto. Sawaki divenne famoso e lo è ancora, molti pensano a lui come a una specie di eroe dello zen. In realtà chi ha fatto il vero lavoro, chi ha ‘varato’ la nave è stato Uchiyama, l’idea fu di Sawaki ma la vita ce la mise Uchiyama. Sawaki ad Antaiji, a parte gli ultimi due anni circa, non c’era quasi mai. Chi tenne in piedi una barca che rischiava di affondare ogni momento, per anni in povertà estrema, fu Uchiyama, prima con l’aiuto di Sodo Yokoyama, poi da solo. Solamente a partire dai primi anni sessanta, quando Antaiji diventò famoso, le cose presero una piega più umana. Prima vi fu solo impegno e silenzio.

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