There is a new kid in town… recita una vecchia canzone di Bruce Springsteen, riprendendo un modo di dire popolare che annuncia una novità.
Il nuovo in questione è un argomento -che abbiamo cominciato a trattare qui– di carattere particolarmente interessante per chi pratichi zazen e non viva all’interno di un monastero o di un luogo adibito anche, o solo, a quello scopo. E’ lecito sedersi da soli? E’ produttivo -almeno per la propria vita interiore-? E’ un’espressione di autentica religiosità -una volta imparato a sedersi in un luogo fondato e curato necessariamente da altri- ritirarsi a pratica privata facendosi vivi con il gruppo quando aggrada o solo per i sesshin, i ritiri, senza collaborare alla sopravvivenza dei luoghi che ci hanno “partoriti”? Sino a che punto le difficoltà contingenti possono fare da schermo, da giustificazione al disimpegno pubblico?

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Ha ancora senso il dettato del Sutra di Vimalakirti che parla del “sacrificio del dono della legge” specificando che è “quello grazie al quale gli esseri maturano senza principio né fine”? Prendendo alla lettera questo sutra, non vi è buddismo senza servizio, la vita religiosa senza l’offerta della pratica non è completa, non si può realizzare. E poi, la delega a “loro che tanto lo fanno volentieri/di mestiere/per ruolo” non è una fabbrica di prelati, e magari della specie meno auspicabile? Vogliamo che i luoghi della pratica vengano gestiti solo dai professionisti della religione?
D’altronde non c’è dubbio che, specie in Cina, in Giappone, l’esortazione a lasciare tutto, a isolarsi e dedicarsi solo alla pratica è presente in molti testi. Ma è di questo che stiamo parlando? Sedersi da soli e non aggregarsi/non aggregare, sono sinonimi?
Ai due articoli iniziali, hanno cominciato ad aggiungersi commenti.

Budda-daismo meneghino

Che cosa c’è nelle brume della Lombardia, che incanta lo sguardo e lo rende leggero? Sarà che il sottile velo di nebbia, per antitesi, suggerisce l’idea che la vera nebbia è ciò che chiamiamo “realtà”.

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Sarà che la pianura, non interrotta da colline o monti, sembra il simbolo di un universo i cui confini si sperdono chissà dove. Allora l’animo del longobardo, tantopiù se artista, non si sente sopraffatto dalla malinconia, anzi impara a danzare lieve lieve nell’aria frizzante, padrone delle cose perché libero, e tanto più libero quanto più sa sorridere di sé.

Forse è questo il filo tenue che unisce le vite e le opere di autori che apparirebbero così lontani nel tempo o negli interessi. Tutti milanesi per nascita o per adozione, ognuno creatore di un suo segno inconfondibile. Si chiamano Giuseppe Arcimboldo, Achille Campanile, Dino Buzzati.

Arcimboldo è quello che dipingeva teste umane componendole di frutta fiori animali oggetti. È stato ripescato dai surrealisti come antesignano (a nostro avviso, erroneamente) della pittura dell’inconscio. È quindi diventato famoso (ma erroneamente, a nostro avviso) come un tipo bislacco che faceva cose buffe per un decadente senso del divertimento. Eppure ci sarà stato un motivo, a parte scacciare la noia, per cui l’Imperatore lo copriva d’oro.

(altro…)

Per par condicio

Alcuni lettori -per primo DR nel suo commento– mi hanno fatto notare che, specialmente nelle manifestazioni esagerate, pompose e ridondanti, tutto il mondo è paese. Non è giusto allora mettere alla berlina un versante lasciandone un altro nascosto. Ho cercato tra le fotografie che documentano i momenti clou della mia carriera formale e l’unica immagine che ho trovato adatta a rappresentare gli eccessi della nostra “parrocchia” è quella che vi sottopongo. Se volete: commentate.

mym

2002
Il broccato
E se il più fine broccato fosse solo l’ombra,
sarebbe meno della carta straccia.
C’è una porta da attraversare.
C’è chi ottiene l’illuminazione con un solo colpo di
bastone
altri nemmeno con tutto l’oro del mondo.
Chi vede il grande tesoro della luna
Per lui nemmeno gli scrigni di un imperatore
potranno eguagliarne lo splendore.
Se tenti di disegnarla sulla carta più pregiata
Non ne rendi minimamente l’idea
Chi invece non ha mai visto la luna
Adorerà quell’immagine come un segno divino.

La porta più finemente lavorata chiude la vista del
cielo.
SC

Forse sono io che, a forza di ridurre le frequentazioni, le occasioni di socialità non so più guardare a quello e a quelli che mi circondano senza il distacco di chi non c’entra nulla. Forse, così, ho perduto -almeno in parte- la capacità di riconoscere i fratelli, le persone semplici e sincere anche quando la vita le costringe ad un mestiere difficile.

Tutto è nato dal fatto che su un quotidiano (1) vi era una fotografia che mi ha lasciato di stucco. Ve la ripropongo perché ritengo sia opportuno osservarla con attenzione.

E mi sono chiesto: “Ma cosa staranno facendo o pensando di fare così … vestiti? Addobbati?” e mi pareva una cosa incredibile che qualcuno -seriamente, non per burla- potesse portare addosso tutto quel broccato, quell’oro, in un ambiente dalle volte così alte piene di statue e di lampade dorate, così conciato (passatemi il termine, non ne trovo altri) che altri due uomini, adulti, apparentemente liberi, vestiti in tinta col primo, erano lì, come inservienti addetti a sostenere un paio di metri ciascuno di stoffa porpora e oro perché le falde del mantello non cadessero a terra… Ero così meravigliato che chiamai mia moglie e mia figlia per mostrare la mia scoperta. Ma non ottenni pressoché alcun risultato. Completamente normale che quegli uomini fossero così addobbati. Anzi, mia figlia mi guardò con quell’aria: “Non comincerà ad essere un po’ svanito, il babbo? Lo sa anche lui come vanno le cose…”.

Ma come vanno le cose?

mym

1) La Repubblica del 3 Aprile, la foto era pubblicata a pagina 10.

BUONA PASQUA!

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Alcuni per rammentare il passaggio del Mar Rosso, altri la resurrezione di Cristo, altri ancora perché usa così… molti sono coloro che ogni anno festeggiano la domenica che segue il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera nutrendosi delle carni prodotte dall’uccisione di centinaia di migliaia di agnelli.

Dubito che questi consumatori di carni appartenenti ad animali appena nati (nella tradizione romana l’abbacchio non deve avere più di 20 giorni), abbiano mai visto un macello, un mattatoio o anche solo l’uccisione di un agnello, di un capretto. Non sarebbe sciocco vedere per sapere. Rendersi conto delle conseguenze, anche di sofferenza, dovute alle nostre scelte alimentari non può che affinare le motivazioni legate a tali scelte. Chi produce, immette sofferenza nel mondo -ovvero in un sistema interconnesso- si assume una grave responsabilità. Da altri punti di vista, abbiamo già preso in considerazione il problema con un post e nell’introduzione ad un recente libro.

PS: la seconda immagine di questo post è ripresa da Protonutrizione, un blog che si sta occupando del tema e ha già ricevuto decine di interventi, anche molto diversi tra loro: un’ottima occasione per riflettere. Però questa volta tutto è iniziato qui.

mym

Il
ha organizzato una raccolta di firme per proporre una legge di iniziativa popolare per impedire che l’acqua, tutta l’acqua, diventi proprietà privata, merce da vendersi a caro prezzo sfruttando la nostra necessità ad accedervi.

Il secondo comma del secondo articolo della legge prevede che si stabilisca che:

“L’acqua è un bene finito, indispensabile all’esistenza di tutti gli esseri viventi. Tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e non mercificabili e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà. Qualsiasi uso delle acque è effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale….”.

Per conoscere la proposta di legge e come partecipare alla necessaria raccolta firme, potete consultare qui il sito del Forum

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