L’arte da parte


Rubrica a cura di Dario Rivarossa

Una galleria di opere d'arte poco conosciute - quando va bene - o sconosciute, per riflettere sul complesso rapporto tra Immagine e Irrappresentabilità. Ospite d'onore il cristianesimo; ma il buddismo, in modo esplicito o velato, ha sempre la sua da dire.

d.r.


Questo articolo riassume la conferenza tenuta il 1° febbraio 2007 al Liceo scientifico “Galileo Galilei” di Perugia nell’ambito del seminario di studio “Dante tra poesia e scienza”, organizzato dai docenti del triennio Ilva Simoncini (Italiano) e Gildo Castellini (Scienze). Il secondo incontro del seminario si terrà al Liceo Galilei di Perugia il 1° marzo, sui canti VIII e XI del Paradiso, con conferenza dal titolo “La provvidenza: la complessa matematica della storia”.

1) L’universo di Dante (che lui a sua volta riprende da Tolomeo), visto con gli occhi di oggi, ha parecchi problemi.

La Terra si trova al centro dell’universo, e intorno le ruota la Luna, e fin qui il modello è comprensibile. Dopo la Luna ci aspetteremmo Marte, e invece c’è Mercurio: in pratica è come se l’uomo, dopo aver raggiunto la Luna, dovesse mirare a Mercurio; progetto che la NASA non ha mai accarezzato. Quanto a Marte, secondo Dante si troverebbe più lontano del Sole, perciò dovrebbe essere più facile inviare una sonda sul Sole che su Marte. Le stelle si trovano tutte sulla stessa superficie, come quelle di un presepe, ecc.

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Eppure, in mezzo a questa cosmologia un po’ sorpassata, spunta qualche idea moderna. Per esempio il nono cielo, detto Primo Mobile (non previsto da Tolomeo), è invisibile ma trasmette il movimento al cosmo intero. In fondo, anche adesso la Fisica afferma l’esistenza di realtà che non si vedono: buchi neri, materia oscura… e che sono fondamentali per il funzionamento dell’universo. Quanto al fatto che la Terra sia collocata al centro, di per sé non è un errore: Einstein insegna che nessun osservatore ha un punto di vista privilegiato, quindi va altrettanto bene prendere come punto fisso la Terra o il Sole, con buona pace di Galileo.

1 bis) Che però l’universo di Dante sia più complesso del previsto lo dimostra il canto 22 del Paradiso, quando il poeta osserva sotto di sé tutti i pianeti e rimane stupito dai loro movimenti e rapporti reciproci. In teoria dovrebbe essere tutto assai lineare, con la Terra immobile al centro e i cieli che le ruotano intorno seguendo orbite regolarissime, e invece Dante si accorge che la faccenda è più intricata. Come se non corrispondesse all’ipotesi di partenza.

2) Soprattutto, Dante rivela la sua modernità scientifica quando parla degli angeli. O che c’entrano con la scienza? C’entrano, perché per Dante gli angeli sono i motori dell’universo; sono loro stessi a costituire le leggi fondamentali dell’universo, svolgendo il ruolo che oggi noi assegneremmo al Big Bang, alla luce, alla teoria della relatività.

Tre punti, riscontrabili in Paradiso, canti 28 e seguenti:

* Il numero degli angeli è incalcolabile, supera le nostre capacità matematiche. Lo stesso vale per il cosmo, secondo la scienza del XX-XXI secolo.

* La disposizione degli angeli in paradiso costituisce il modello dell’universo, ma modello e universo non combaciano, anzi sembrano opporsi: i cerchi angelici hanno una forma, l’universo ne ha un’altra, così che la corrispondenza va trovata con il ragionamento. Allo stesso modo, tutta la Fisica attuale è altamente speculativa, non immediata. Esempio: quando Newton diceva che le mele cadono a terra, è una cosa che possiamo constatare con i nostri occhi. Quando invece l’attuale teoria delle “corde” o “stringhe” sostiene che nello spazio esistono una decina di dimensioni, si tratta di pura matematica astratta: noi di fatto vediamo solo tre dimensioni, le altre sono “arrotolate”, eppure la loro presenza impercettibile renderebbe ragione dei macro-fenomeni del cosmo.

* Dante inoltre dice che l’universo fu sconvolto meno di 20 secondi dopo la creazione, a causa della caduta di Lucifero, la quale ebbe anche conseguenze fisiche, non solo morali. Così, con un linguaggio medievale spontaneo, Dante anticipa la teoria del Big Bang, secondo cui tutto si è giocato nei primi tre minuti, che hanno condizionato ogni sviluppo successivo.

3) Due passi nella fantascienza.

* A ben pensarci, il Paradiso dantesco è rivoluzionario: non è un “al di là” ma coincide con il cosmo fisico. Dante visita la luna, i pianeti, le stelle e vi trova… forme di vita intelligente (che per lui sono le anime dei beati), esseri luminosi come gli alieni di Incontri ravvicinati o Cocoon.

* E ancora, arrivato all’Empireo, vede tutti i beati radunati in una sorta di mega-stadio. Questo oggetto è creato dalla luce di Dio che si riflette sulla superficie del Primo Mobile. Ma un’immagine tridimensionale prodotta da un raggio riflesso si chiama “ologramma”: è senza dubbio il primo ologramma della storia.

4) Nella visione finale di Paradiso 33, Dante vede tutte le cose “conflate”, concentrate all’interno di Dio stesso. Con un passo ulteriore, negli ultimissimi versi, contemplando il mistero di Cristo Dio-Uomo, dice che in lui i confini di Dio coincidono con quelli della materia, “si convenne l’Imago al Cerchio”. Sì, la materia è infinita, è un attributo di Dio stesso – e qui ci sta bene un parallelo con la filosofia di Baruch Spinoza.

Riassumendo: si parte da un modello del mondo che sembra riduttivo, poi invece ci si allarga sempre di più, fino a concepire un universo infinito.

… E chiamatelo “medievale”!

dr

L’arte che “alluminar” chiamata è in Parisi

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Miniature di cemento, estese per centinaia di metri quadrati.
A realizzarle è stato l’ultimo degli artisti medievali, un frate cappuccino di nome Ugolino: Ugolino da Belluno. Le sue opere, come quelle dipinte sui codici del Tre-Quattrocento, uniscono esemplarità dei temi, devozione e audacia. È tutto un fiorire di decorazioni vegetali, animali irrequieti, simboli sacri, note gregoriane, e i misteri del cristianesimo come nessun altro aveva mai osato raffigurarli. Padre Ugolino ha negli occhi le basiliche romaniche, e intanto tiene Wittgenstein sul comodino.

Il suo nome, al secolo, era Silvio Alessandri; nato nel 1919, ci ha lasciati nel 2002. Ha lavorato con il bronzo, con il mosaico e con l’“affresco graffito”, una tecnica da lui inventata che consiste nello stendere su un muro vari strati di cemento colorato, e poi grattare le superfici fino a ottenere il disegno. La sua cifra stilistica, che lo rende riconoscibile dappertutto – da Centocelle a Granada – sono le “figure ombra”, cioè immagini sdoppiate in cui all’elemento in primo piano se ne associa uno, più scuro, che ne amplifica il significato.
Spesso si tratta di semplici effetti stroboscopici, come quando la figura ombra di un uccello in volo è lo stesso animale in posizione diversa, in modo da creare l’illusione del movimento. Altre volte emerge un significato spirituale: “dietro” un frate che predica c’è san Francesco; dietro il povero che chiede, c’è Gesù.
Ma soprattutto, questo gioco ottico viene applicato al Mistero per eccellenza, la morte e risurrezione del Cristo. A volte la prima fa da ombra alla seconda, altre volte il contrario. E sempre, sempre, sempre, da questo Crocifisso-Risorto si dipana un groviglio di spine, il tutto avvolto da una luce rossa.

Che cos’è? “Togliti i sandali, perché questo è terreno sacro”. È il roveto ardente, enigma in cui salta il normale rapporto tra significante e significato (“Perché il roveto non brucia?”). Così, più Ugolino si sforza di definire nei dettagli l’Incomprensibile, più esso fugge in lontananza. Più lo spettatore si lascia catturare da quei grotteschi crocifissi, da quei luminosi risorti, meno si accorge dell’esplosione muta e vermiglia che avvolge ogni cosa. Non a caso, nella parte alta degli affreschi compare più volte la scritta JHWH in caratteri ebraici, il Nome impronunciabile, oppure, altrettanto impronunciabile, il JHS cristiano.
Ancora più spesso, Ugolino decora intere pareti o archi con sequenze di note, del tipo usato per il canto gregoriano, ma… senza pentagramma. Pura effusione lirica.
Il limite è che pitture che sarebbero perfette su una pagina miniata, diventano un po’ oppressive su una parete enorme. Per questo, più delle fin troppo squillanti absidi ammirate dai Papi, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, si lasciano gustare alcuni dettagli defilati. Come gli uccelli, degni di Hokusai, affrescati nella chiesa di Santa Maria della Marina a San Benedetto del Tronto.
Un capolavoro è la cappella dell’eucaristia della chiesa di San Francesco a Sassari (nella foto). Qui frate Ugolino, con genialità dadaista, ha abbinato un sepolcro paleocristiano in marmo a uno scuro tabernacolo barocco, poi sui muri ha dipinto tralci di vite, uccelli e un cervo, in bianco, nero, grigio e varie tonalità di terra e ocra.
E Lui, Lui dov’è? Da nessuna parte, quindi dappertutto.

dr

Per assenza di prove

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È come se Einstein venisse ricordato esclusivamente per aver detto: “Dio non gioca ai dadi”, e quindi sia nell’immaginario collettivo che sui libri di testo lo si identificasse con un propugnatore dell’universo medievale, senza mai fare cenno alla teoria della relatività! Sarebbe un bel po’ assurdo…
Beh, è proprio quello che è successo a sant’Anselmo di Aosta con il suo Proslogion. Dappertutto, il suo nome è collegato a una sola e unica idea: la cosiddetta “prova ontologica” dell’esistenza di Dio, secondo cui Dio deve necessariamente esistere, perché è perfetto. Dal monaco Gaunilone in poi, nella storia della filosofia è stato una continua querelle per stabilire se si tratti di un’intuizione geniale o di una vaccata pazzesca.Peccato che la “prova ontologica” sia solo una goccia nell’oceano del Proslogion, e che anche questo specifico argomento, all’interno del libro, venga rapidamente ribaltato. Ora, è vero che Anselmo, nel famoso capitolo II, paragrafo 2, definisce Dio aliquid quo maius nihil cogitari potest, qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande. Però, anzitutto l’uso del termine “qualcosa” dovrebbe mettere in guardia; e soprattutto, l’esistenza di Dio viene affermata non come una dimostrazione scientifica ma come un flash, un’improvvisa, inafferrabile lama di luce nella mente dell’autore. (altro…)

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Sta per chiudersi il 2006, anno in cui ricorre il VII centenario della “nascita al cielo” di Iacopone da Todi. L’evento non può non essere celebrato anche in questa rubrica, tutta giocata sulla imbarazzante linea di confine tra immagine e irrapresentabilità, tra teismo e non-teismo. In questo contesto… que farai, fra’ Iacovone? Èi venuto al paragone.

Il grande poeta umbro è rimasto famoso soprattutto per i suoi colpi di martello: la santa follia dello “iubelo del core”, le invettive contro Bonifacio VIII e contro i francescani imborghesiti, i dolori della Madonna, le descrizioni impietose della condizione umana, dalle sofferenze del parto allo spappolamento del cadavere. Ma rimane spesso da indagare un altro aspetto dei suoi testi: il vertice dell’esperienza mistica, in cui viene scardinata ogni categoria umana. (altro…)

Dario Rivarossa ci segnala:

La Effe, Fabrizio Fabbri Editore, di Perugia ha appena pubblicato una bellissima edizione delle Laude di Iacopone da Todi. Contiene tutti i testi redatti in un linguaggio scricchiolante e sublime dal noto frate medievale (una novantina di componimenti), più la parafrasi in italiano corrente, più una serie di apparati critici.

Che c’entra con il buddismo? Se si vanno a leggere i versi in cui Iacopone descrive i vertici dell’esperienza mistica, si scoprirà… (magari un giorno qualcosa comparirà su queste stesse pagine web…).

dr

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Tanto è semplice e noto lo spunto di partenza, quanto è intricato ed esoterico l’esito finale. L’illustrazione di Salvador Dalí qui riprodotta rappresenta Don Chisciotte della Mancia mentre giura eterna dedizione alla sua signora Dulcinea del Toboso; in realtà si tratta di una contadinella trovata per caso da Sancio Panza, che sorride divertito, osservando la scena di nascosto.

Se questi elementi più o meno “tornano”, tutto il resto non torna affatto.

Dalí ci mette infatti di fronte un’immagine che, per soggetto e atmosfere, ha tutta l’aria di un Trionfo della Morte del tardo XIV secolo. Don Chisciotte sembra un cadavere in avanzato stato di putrefazione; il muro è macchiato, screpolato, cosparso di formiche; nel paesaggio allucinante si intravede un maiale decapitato. La stessa Dulcinea, vista di spalle, anoressica, completamente nascosta sotto un mantello, non ha la rozzezza di una contadina… ma neanche la soavità di una principessa. La sua mossa ha un che di civettuolo.

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Questa è una miniatura tratta dal Libro d’ore di Carlo VIII re di Francia (fine XV secolo). Con un gioco di parole in inglese, ci piacerebbe intitolarla “In-Carnation”.

La scena è nota, e ricorrente in tutta l’arte medievale con gli stessi elementi di base: il Calvario, dove il Cristo crocifisso è pianto dalla madre Maria e da san Giovanni, una di qua, l’altro di là. Eppure, ognuna delle migliaia di miniature su questo soggetto, realizzate lungo i secoli da uomini di spirito, contiene qualcosa di peculiare, che a volte necessita di un certo acume per essere individuato.

Il nostro caso è forse uno dei più interessanti. Chi è infatti il personaggio che piange, o si nasconde, sulla destra? Quello tutto bianco, compreso il volto?

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