Da alcuni anni Jf svolge il ruolo di Sokan, ovvero Direttore dell’ufficio europeo del Soto shu, delegazione off shore del braccio amministrativo del buddismo Soto zen giapponese. In quell’alto soglio ha la possibilità, spesso il dovere, di osservare da vicino come nei vari “centri” zen europei venga coniugata la pratica religiosa col denaro.

dipendenza-denaro

Dopo l’ennesima esperienza, senza citare alcun luogo particolare, ci ha inviato l’articolo che segue, diretto a tutti i luoghi dove si pratica lo zazen. Ma potrebbe altrettanto riguardare tutti i luoghi di pratica, indipendentemente dalla religione di appartenenza.

I costi della spiritualità

In una recente occasione, ho avuto modo di discorrere del tema dei costi di partecipazione ai ritiri spirituali zen (sesshin) e più in genere alle attività dei vari centri di pratica zen esistenti ormai un po’ ovunque in Europa. Ne ho ricavato alcuni spunti per una riflessione che desidero partecipare pubblicamente, perché credo si tratti di un argomento d’importanza cruciale. Nel discorrere, è emersa una questione così posta: ci sono persone che, pur non essendo in particolari ristrettezze economiche, e che non badano a spese se si tratta di acquistare l’ultimo smartphone in commercio, si sentono in dovere di risparmiare sulle spese di partecipazione alla pratica spirituale, per una sorta d’ideologia pauperistica. L’argomento mi ha dato da pensare, e quanto segue è il prodotto della mia riflessione.

Il problema non è, io credo, l’atteggiamento delle persone che vogliono risparmiare o l’offerta di una spiritualità a prezzi abbordabili. La questione, essenziale, è completamente su un altro piano: non si può “risparmiare” sulla spiritualità, per il semplice motivo che la spiritualità non ha un prezzo, non la si può pagare. Se c’è da pagare, non si tratta di spiritualità, che non è un bene né vendibile né acquistabile: quindi non può avere un prezzo. Quello che si paga, se si paga, non è la spiritualità, è il vitto e alloggio, non l’attività spirituale (zazen, insegnamenti, partecipazione al culto…): se è questo che si fa pagare, se si pensa di far pagare questo, non si tratta più di pratica religiosa, perde il suo carattere spirituale e diventa un bene commerciale. Anche se si fa e si fa fare zazen, cerimonie, insegnamenti, con rigore e intensamente, non sono più forme di spiritualità, divengono forme della mondanità. Si tratta di una mutazione, di una trasformazione alchemica, se così posso dire: pur mantenendo la forma esteriore, la sostanza muta completamente: l’oro ridiventa piombo. Noi non abbiamo il potere di trasformare il piombo (la terra, la merda…) in oro: è dono gratuito, qualcuno direbbe la grazia. Ma abbiamo, senza dubbio, il potere di trasformare l’oro in piombo (in terra, in merda…). Sappiamo bene che non è in virtù dei nostri sforzi che zazen, i riti, gli insegnamenti sono pratiche religiose spirituali, quando lo sono: ma possiamo certo, con un solo pensiero, trasformarli in prodotti del nostro interesse, della nostra superstizione, della nostra vanità intellettuale: in una parola, della nostra malafede, più o meno consapevole.
Credo che questo debba essere molto chiaro quando si offre alle persone la possibilità di partecipare a un ritiro, chiedendo nello stesso tempo un prezzo stabilito e non, semmai, un’offerta libera: bisognerebbe spiegare in modo esplicito, in un modo che non possa lasciar adito a dubbi, che il denaro che si chiede non ha nulla a che fare con la pratica che si farà insieme, è solo il prezzo di vitto e alloggio e solo a quello scopo viene utilizzato, per dare da mangiare e un tetto a coloro che vengono. Altrimenti tutto l’impegno e lo sforzo, sia di chi organizza, sia di chi partecipa, saranno vani e il prezzo non varrà la candela, alto o basso che sia, per il semplice fatto che la candela è spenta, anche se par far luce.
Aprire e amministrare un luogo di pratica religiosa dove vivere in modo santo e condurre dei ritiri, non è un obbligo, è una libera scelta, un lusso, in questo mondo in cui la libertà di scelta del proprio stile di vita è così negletta, e chi sente questo desiderio, fosse anche come imperativo morale, dovrebbe realizzarlo e mantenerlo a sue spese. Credo che qui valga il principio e lo spirito dell’elemosina, ricevendo ciò che è spontaneamente donato senza sollecitare o provocare il dono; accettando solo il necessario per la vita più sobria possibile dei praticanti presenti. So di che parlo, per aver anch’io “gestito” per vari anni luoghi di pratica (dojo) e una comunità di residenza e accoglienza, e dunque conosco per esperienza personale gli errori che si possono commettere in questo ambito, per averne anche a mia volta commessi.
Siccome ritengo l’argomento attuale, importante e pertinente, e di pubblico interesse per ogni esperienza religiosa e non solo per il passato, presente e futuro del buddismo zen in Europa, mi permetto qui di esporlo in questi termini. Grazie.