Buon anno a tutti.
Più delle altre volte transitare per il primo gennaio mi ha fatto sentire intenso l’esser vivo. Il sentimento associato a questa consapevolezza non è stato di gratitudine, come a volte si dice dovrebbe essere, ma di … scuse. La pulsione a scusarmi d’esser vivo.
Dopo questo simpatico siparietto personale che va ad incrementare il già corposo capitolo Checceneimportannoi, iniziamo da dove ci eravamo lasciati. Se seguo il buddismo, gli insegnamenti del buddha per dirigere la mia vita, dovrei farlo anche (soprattutto?) in senso etico. In termini pratici concreti, che cosa significa? Dovrei seguire i 5, gli 8 o i 10 precetti? Conosco i precetti? Posso prescindere dai precetti? Se sì, perché? Se no, perché?

L’argomento, mi pare, riguarda i buddisti e tutti, non lascia fuori nessuno, anche chi non ha alcun legame con la religione: chiunque compie scelte probonus.
Un’occasione per proseguire la riflessione ce la offre un articolo comparso il 23 dicembre sulla prima pagina di La Repubblica col titolo Società plurale e morale comune che trovate qui in fondo. Era firmato “Angelo Scola, Patriarca di Venezia”. Ora, ho molto rispetto per i patriarchi in generale ma in questo caso penso valga la pena cercare il pelo nell’uovo, anche perché -a me pare- uovo pelosissimo è. Tralasciando i vagheggiamenti del Patriarca su un tempo in cui pare fosse possibile una “morale comune” o in cui fosse possibile parlare di una “percezione morale” (moral insight) per sua natura universale e propria di ogni uomo in quanto uomo, mi sembra degna di un buon cercatore di verità la frase: Importanti correnti del pensiero morale concordano nell’affermare che per cogliere l’autentica natura della morale si debba partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo vive. Notiamo che se per sondare l’autentica natura della morale partiamo dall’esperienza dell’uomo, il bene in sé (e perciò il male in sé) cui dice di richiamarsi il Patriarca, subisce ontologicamente un duro colpo. Ma, soprattutto, da qui in poi cominciano i problemi…

Dice infatti il Patriarca: Se si guarda alla genesi di questa esperienza morale, ci si rende conto che essa si radica in un desiderio di compimento di sé¸ che prende forma dalla promessa suscitata dalle inclinazioni e dagli affetti originari. A partire dalle relazioni primarie di riconoscimento reciproco con la mamma e il papà, il bambino, mediante la parola, acquista coscienza pratica di se stesso e diventa capace di apertura e comunione con gli altri. Assegnare come unica motivazione della genesi dell’esperienza del bene in ogni uomo la spiegazione psicanalitica del riconoscimento reciproco con i genitori tramite la parola sulla base degli affetti originari è limitante, culturalmente scorretto, religiosamente impoverente ecc. ecc. Un sordomuto orfano dalla nascita (facciamo subito un caso limite così risparmiamo tempo) sarebbe privato di ogni possibilità di sperimentare il bene, secondo gli angusti limiti posti dal Patriarca. Il salto successivo -un salto mortale carpiato- porta dal bambino in dialogo affettivo con mamma e papà alla parabola evangelica di Gesù ed il giovane ricco, ascoltiamo ancora il Patriarca: … e comunione con gli altri. A questo proposito il dialogo tra Gesù e il giovane ricco raccontato dal Vangelo è particolarmente significativo anche a una pura lettura razionale perché vi possiamo trovare conferma della triplice scansione dell’esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimento-comunione. Il giovane ricco si avvicina a Gesù e chiede: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Accogliendo la domanda, Gesù gli risponde: «Dà ai poveri». Lo invita cioè a riscoprire la decisività del nesso tra il bene e la relazione. Il desiderio di compimento che anima il giovane ricco si realizza, dunque, in questo riconoscimento che apre a una vita comune, condivisa: è questa la forma originaria dell’esperienza del bene e la verità antropologica della moralità. Se i comandamenti sono la via al bene, il principio della moralità è il bene stesso. Ed è nella relazione che questo si rivela primariamente. Del bene si deve fare esperienza perché il desiderio di bene trovi la via della piena attuazione. Qui troviamo le maggiori criticità: secondo il Patriarca, Gesù, dicendo al giovane ricco di donare tutto ai poveri lo invita a riscoprire la decisività del nesso tra il bene e la relazione. In pratica il dono dell’affetto ricevuto dai genitori nel quale si è scoperto esistente nella raggiunta comunità tramite la parola viene riprodotto nell’atto di donare ai poveri, quindi: conferma della triplice scansione dell’esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimento-comunione. Infatti: Il desiderio di compimento che anima il giovane ricco si realizza, dunque, in questo riconoscimento che apre a una vita comune, condivisa. Il ghiaccio si fa sempre più sottile: il “giovane ricco” cercava la vita eterna, il massimo del massimo, non pannicelli caldi quali vita comune, condivisa. Nel Vangelo, in realtà, Gesù prova prima a dissuaderlo: «… fai il bravo, segui i comandamenti, dai…» ma il giovanotto insiste. Allora Gesù gli dice vendi, regala e seguimi, non gli dice di spupazzarsi i bambini un po’ mocciosi dei poveri beneficiati, gli dice di spogliarsi del suo sia in quanto cose (dona!) sia in quanto vita (seguimi!). In quel caso, con tutto il rispetto, Gesù ai poveri (qui totalmente astratti) o meglio: alla relazione con loro, non ci pensava proprio, pensava al giovane ricco. Altrimenti quando il giovanotto invece di donare tutto si allontana avrebbe dovuto tentare di trattenerlo, di mercanteggiare: «Magari tutto no, ma almeno vendi la casa al mare, che la usi poco…». Invece (be’, è figlio di Dio, non sarò io a doverlo ricordare…) sapeva già come sarebbe andata a finire: il giovanotto voleva diventare (come) Dio; per poter agguantare il premio avrebbe dovuto superare prove disumane: spogliarsi completamente dell’umano. Sport per minoranze, tant’è che conclude con occhio clinico il Nazareno: «…è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”». Si sa: solo (uno come) Dio può compiere atti veramente disumani.
E i poveri? Con buonapace del Patriarca Scola, quelli, poveracci, benché compatiti ecc. ecc. come sempre son lontani dalla torta, altrimenti non sarebbero più “i poveri”… Ed è giusto così: se “il bene” è nella relazione, nella fattispecie nel donare ai poveri, in assenza di poveri (o di ricchezze da donar loro) il bene scomparirebbe, non sarebbe più “il bene”.
Morale della storia: anche in una religione in cui, tutto sommato, l’etica dovrebbe essere problema semplice (i 10 comandamenti sono stati redatti direttamente da Dio; durante qualunque predica il sacerdote con competenza assicura che Dio vuole questo o quello da noi…; è data per certa l’esistenza del bene e del male in sé) si brancola in modo ancor più incerto che altrove, e per di più occorre anche rispondere contemporaneamente al dogma del bene/male in sé, alla razionalità, all’esperienza comune, alle smanie dei patriarchi…

Ecco l’articolo di cui del quale.