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Sta per chiudersi il 2006, anno in cui ricorre il VII centenario della “nascita al cielo” di Iacopone da Todi. L’evento non può non essere celebrato anche in questa rubrica, tutta giocata sulla imbarazzante linea di confine tra immagine e irrapresentabilità, tra teismo e non-teismo. In questo contesto… que farai, fra’ Iacovone? Èi venuto al paragone.

Il grande poeta umbro è rimasto famoso soprattutto per i suoi colpi di martello: la santa follia dello “iubelo del core”, le invettive contro Bonifacio VIII e contro i francescani imborghesiti, i dolori della Madonna, le descrizioni impietose della condizione umana, dalle sofferenze del parto allo spappolamento del cadavere. Ma rimane spesso da indagare un altro aspetto dei suoi testi: il vertice dell’esperienza mistica, in cui viene scardinata ogni categoria umana.

Oh sì, tutti gli autori cristiani, gira e rigira, se ne escono con l’affermazione della ineffabilità di Dio, ma poi continuano a parlare bellamente. Non fa eccezione neppure Dante, quasi contemporaneo di Iacopone e suo emulo. Il frate di Todi invece non si limita a vaghi accenni, ma ci butta nel bel mezzo dello sconvolgimento mentale provocato dall’esperienza dell’Alterità; aiutato in questo dal suo stile contratto, nervoso, dove parole magari dolcissime diventano scioccanti a causa del loro inserimento in frasi in cui sono saltati tutti i collegamenti sintattici.
Iacopone è e rimane un autore cristiano nel senso stretto del termine; il suo Dio ha un nome ben preciso e appartiene a una teologia ben definita. L’esempio più alto della sua mistica “cristiana in senso stretto” è probabilmente costituito dalla lauda Amor de Caritate, perché m’ài ssì feruto?
E tuttavia…
Tuttavia, quando Iacopone incontra faccia a faccia il Cristo cosmico, non solo il pensiero e il linguaggio, ma anche i sentimenti e i valori impazziscono. Si gusta il “nichil glorioso”. Da ogni parte piovono espressioni come Non-visione, Non-forma, Non-essere, Non-io. La trasformazione mistica coincide con una deformazione; la pienezza coincide con un annullamento; la visione coincide con la cecità; i concetti di “bene” e “male” evaporano.

La poesia in cui tale esperienza è portata alle estreme conseguenze è Sopr’onne lengua Amore, che nella prima edizione a stampa delle Laude, Firenze 1490, era intitolata: “Como l’anima per sancta nichilità e carità perviene a stato incognito e indicibile”. Posto che per comprenderla sarebbe necessario leggere il testo per intero – anzi, neppure quello – ne riportiamo alcuni frammenti.

Bontà senza figura, lume for de mesura… Averte conosciuto credìa per entelletto… Or parme fo fallanza [adesso però mi sembra sia stato un errore]… Luce li pare obscura, qual prima resplandìa; que vertute credìa, retrova gran defetto… Se non n’èi ’n esto ponto, che mente en sé non sia, tutto sì è falsìa que te par veritate [se non arrivi al punto in cui la mente non è più in sé, tutto ciò che ti sembra verità è falsità]… Se te vai figurando imagen’ de vedere… multo parm’ engannato… Non gir chidendo en mare vino, se ’l ce mittissi, che trovar lo potissi [se si versa in mare una goccia di vino, poi la goccia non si trova più]… Questa sì summa altezza en nichil è fundata… [E come risultato, l’estinzione del desiderio:] disiderio armortato…

Tutto questo non si trova su un piano diverso, rispetto alle descrizioni impietose della condizione umana accennate sopra. Anche il Buddha non era forse partito di lì?

Si avvicina il Natale. Il Cristo, sottolinea Iacopone, nascendo è diventato pellegrino, povero, disprezzato, “senza un posto dove posare il capo”. Uniamoci al pellegrinaggio, magari sulle note dell’Ave Maria, come i personaggi (nella foto) della sequenza finale di Fantasia di Disney. Buone feste.

d. r.