Un caso incredibilmente delicato, in questi giorni, tiene banco in Italia, accompagnato da una sguaiatezza da parte della Presidenza del Consiglio e della Chiesa cattolica -nonché da sostenitori dei due- degna delle dispute da bar.
Luciano Mazzocchi ne scrive con pacatezza, delicatezza e acume. Pubblichiamo il suo scritto, del quale uno stralcio è apparso l’8 febbraio tra le “Lettere” de La Repubblica

sia che viviate sia che moriate

Il caso Eluana, come ci è commentato dai mass media, sembra essere vissuto con partecipazione solo da chi si schiera in due posizioni: i favorevoli e i contrari a staccare il sondino dell’alimentazione. Purtroppo, ai due gruppi vengono date denominazioni di comodo e sommarie: contrari i cattolici, favorevoli i laici. Questa faciloneria amareggia molti, tra i cattolici come tra i laici. Oggi si discorre sul caso Eluana un po’ dappertutto: in treno, sul lavoro, ovviamente anche in chiesa coi fedeli e anche tra sacerdoti. La gente, per fortuna, non deve salire sul podio dell’una o dell’altra parte per ripetere frasi ufficiali, e per questo parla di Eluana senza arroccarsi in definizioni; anzi, le evita quasi percependo che in questi casi non ci sono parole esaustive, né soluzioni esemplari. La gente parla dei casi pregni di dolore quasi in silenzio. Non dà ragione né all’una né all’altra parte; o, forse, dà ragione a tutte e due. Così, dopo aver discorso, il discorso riconduce al silenzio.

Io sacerdote, come vari confratelli con cui ho conversato sull’argomento, mentre aderisco dal fondo del cuore all’affermazione che la vita è un dono e che ogni periodo della vita ha il suo profondo senso umano, culturale e religioso, contemporaneamente so che la morte è inseparabile dalla vita, ne è il passaggio più decisivo, purificante, santificante. So che la morte è nobile. “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,7-8). Nella posizione che è fatta passare come quella ufficiale della chiesa, pare che morire sia un male da evitare fino all’ultimo; mentre la morte è la corona di tutta la vita. Chi non ricorda la morte dei propri genitori? In Estremo Oriente, dove ho vissuto come missionario 19 anni, l’avvenimento della morte è familiare e pacato. Gesù, percependo l’avvicinarsi della sua morte, esclamò: “E’ giunta l’ora che sia glorificato” (Gv 12,23). Aggiunse pure che chi trattiene la sua vita la perde, chi la perde la trova. La morte è un momento provveduto e assistito nella volontà di Dio, ma contemporaneamente è un momento comunitario, storico che coinvolge gli altri esseri compagni di cammino, che hanno alimentato e sostenuto quella vita, e che alla fine dovranno accudire a riporne il corpo esanime nella terra.
Venero sia la vita sia la morte, come due opposti che testimoniano una vita più grande in Dio. E so che il loro confine di volta in volta si evidenzia attraverso segni e situazioni, che la coscienza di chi ha portato la croce della situazione comprende.
Qualcuno della chiesa ha detto la parola: Assassino. Sono un povero prete, tuttavia chiedo perdono!
p. Luciano Mazzocchi, missionario saveriano