Presentiamo uno scritto di Enzo Bianchi a proposito delle preghiere islamiche, nelle piazze delle città italiane, che hanno seguito o accompagnato le manifestazioni di appoggio e

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solidarietà con i palestinesi di Gaza.

L’articolo è comparso venerdì 9 gennaio sul quotidiano La Repubblica.

La preghiera è di Dio e non di Cesare

Vedere le piazze antistanti antiche cattedrali gremite di musulmani in preghiera dovrebbe suggerire alcune riflessioni più articolate di un semplice stupore, di una polemica di bassa lega, di una veloce nota di costume. Innanzitutto per il luogo fortemente simbolico: da secoli in Italia la piazza su cui si affaccia la chiesa principale di una città riveste un carattere emblematico: affermazione forte della presenza del cristianesimo al cuore

dell’abitato urbano e, nel contempo, faccia a faccia esplicito tra religione e società. L’agorà, il luogo del dibattito civico, del convergere di interessi e attività sociali profane fronteggia il sito per eccellenza della presenza del religioso nella vita quotidiana: cattedrale e palazzo di città, l’una sovente di fronte all’altro, sono lì a ricordare la mai risolta dialettica tra Dio e Cesare, tra città di Dio e città degli uomini.

Ma nei giorni scorsi piazze abituate ad accogliere manifestazioni e cortei, oltre che il quotidiano andirivieni dei centri storici, si sono riempite di oranti, rendendo manifesto un intreccio di preghiera e protesta. Ora, è innegabile che in uno stato democratico e in una società civile lo spazio pubblico debba essere e restare disponibile per la manifestazione pacifica del dissenso, per la protesta o la pressione, anche dura ma sempre nei limiti della legge, di componenti dell’opinione pubblica o di organizzazioni politiche o sindacali. Tuttavia l’immettere nell’esercizio di questo diritto alla libertà di espressione, anche collettiva, una così esplicita connotazione religiosa mi pare metta a rischio sia la natura laica delle contese socio-politiche sia l’essenza stessa della preghiera. E questo, indipendentemente dalla religione confessata di quanti trasformano una manifestazione di protesta in momento di preghiera collettiva. Non dovremmo dimenticare, infatti, l’antichissima e mai sopita tentazione di arruolare nelle proprie schiere la divinità, di identificare i propri nemici con quelli di Dio, di far splendere gagliardetti e insegne militari in mezzo a paramenti sacri, di benedire armi da guerra e strumenti di morte: caratterizzare come religioso uno scontro sociale o etnico significa accrescere le potenzialità distruttive del conflitto e innescare una deriva di cui finiscono vittime la convivenza civile e il confronto democratico in uno stato laico.

Ma anche la qualità autentica della preghiera esce mortificata dalla commistione con la lotta politica. Nel 1965 il grande teologo poi cardinale Jean Daniélou scriveva un libro memorabile, L’oraison, problème politique, in cui poneva il problema della preghiera divenuta sovente evasiva nei confronti dei problemi della polis. Pur con qualche nostalgia della cristianità, l’opera poneva il problema serio del rapporto tra storia, politica e preghiera, problema che riguarda tutte le fedi perché in qualsiasi religione la preghiera non può non accogliere dentro di sé ansie, sofferenze, grida e invocazioni di giustizia, perché cessino il male e l’oppressione e il persecutore venga disarmato. Ma al contempo la preghiera non può essere strumentalizzata fino a renderla una delle armi con cui si conduce una battaglia per una pur giusta causa.

Nel Vangelo di Matteo, Gesù ha ammonito severamente i suoi discepoli: “quando pregate non fate come quelli che con un comportamento nascondono le loro vere intenzioni e pregano sulle piazze per essere visti dagli uomini” (Mt 6,5). Questo non significa confinare il religioso nel privato, negando una dimensione pubblica del culto, ma fuggire un’ostentazione di ciò che è più intimo e autentico nella vita di un credente per piegarlo ad altri scopi. Ogni credente ha diritto alla libertà di manifestare, vivere, proclamare, far conoscere la propria fede, ha diritto ad avere un luogo per la preghiera anche comunitaria e chi oggi in Italia nega questo ai fedeli di altre religioni, in particolare ai musulmani, non solo ferisce la democrazia, ma compie un gesto estraneo alla logica cristiana, la quale può chiedere ma non pretendere o porre come condizione la reciprocità.

Vi è inoltre un aspetto delicato della preghiera, difficilmente spiegabile a chi non è credente: la preghiera, infatti, è altra cosa dal grido spontaneo che sale dall’angoscia, non è il ricorso a un Dio tappabuchi che interviene e toglie al credente ogni responsabilità e dovere di azione. La preghiera è ascolto di una presenza invisibile che il credente riconosce in Dio, un operare discernimento, un decidere, un trovare ispirazione per la vita quotidiana concreta. Nulla è estraneo alla preghiera e tutto ciò che è umano può in essa trovare posto: gioia e lamento, pianto ed ebbrezza, fiducia e protesta… Chi conosce i Salmi, la preghiera che ebrei e cristiani continuano a cantare ogni giorno da millenni, sa che in essi c’è intimità e storia, vicende personali ed eventi politici del popolo di Dio e degli altri popoli.

In questo senso nel cristianesimo si è sempre avuta la percezione che la preghiera è anche una componente della storia, cioè una forza efficace che fa storia con l’umanità, capace di compiere il bene ma anche di commettere il male. Se infatti pregare è “decidere con Dio”, se la preghiera fa sì che l’agire sia sotto la guida dello Spirito, se porta a “intercedere”, cioè letteralmente a “compiere un passo tra” due situazioni, allora proprio il suo indirizzare la responsabilità umana diventa componete sella storia. Agli occhi di chi non la conosce e non la pratica può apparire operazione vana, stolta o addirittura arrogante, ma per chi ha fede la preghiera è davvero efficace.

In questa situazione non si dimentichi che la preghiera cristiana trova la sua connotazione più autentica nell’essere preceduta dalla riconciliazione: il monito evangelico ad astenersi dal presentare l’offerta a Dio prima di essersi riconciliati con quanti hanno qualcosa contro di noi, l’impegno a rimettere i debiti ai propri debitori per poter invocare il perdono da Dio, l’invocazione della pace come dono di Dio e profezia inverata nella storia sono tutte dimensioni che rendono la preghiera cristiana “disarmata”, libera da ogni coercizione, impossibilitata a essere difesa con le armi, sull’esempio della preghiera di Gesù al Padre nell’ora della prova decisiva. E’ questa l’espressione genuina della preghiera capace di muovere le vicende della storia, come testimoniano figure come Francesco d’Assisi: invocazione a essere nel mondo strumenti disarmati, pacifici e pacificatori della volontà di Dio che è volontà di bene, di vita piena per ogni essere umano.

Viviamo un’ora difficile, una stagione in cui si oscilla tra negazione del dialogo interreligioso e desideri di ripresa di una cristianità che escluda l’altro eletto a nemico, un’ora in cui vi è anche chi, logorato da questo contenzioso espresso con la religione, finisce per avversarla o per pensare che tutte le religioni siano uguali e incapaci di offrire qualsiasi messaggio di umanizzazione. Per questo è fondamentale che la preghiera sia mai politicizzata, non venga mai messa al servizio della violenza né dalla violenza si faccia servire: sia invece voce dei senza voce, orecchio teso ad ascoltare il grido dei poveri e degli oppressi, mani levate a invocare quelle giustizia che esse stesse plasmano giorno dopo giorno, ma nella mitezza di chi cerca di vincere il male con il bene e nella franchezza di chi sa rendere a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

Enzo Bianchi