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ome promesso, ecco una nuova visitazione del libro di padre Tiziano Tosolini, giovane missionario saveriano, ora in Giappone. Diciamo subito che il libro val davvero la fatica d’esser letto con attenzione, anche se non tutti i motivi che mi spingono a dirlo sono di apprezzamento per il suo contenuto. È ben scritto, documentato sui vari aspetti della vita di un popolo e la sua storia. È un testo complesso, articolato, con un ottimo lessico, vario, dove religione, antropologia, psicologia e

sociologia si equilibrano e si intrecciano. Il Giappone ed i suoi abitanti vi sono rappresentati con occhio attento, seppure questa attenzione a volte si arresti, non giunga sino in fondo. In ogni caso la quantità di spazio che vi stiamo dedicando testimonia, penso, del fatto che non si tratti di un libro irrilevante. Trovate qui l’articolo che state leggendo in formato pdf, completo delle note che non hanno trovato posto nel testo che segue.
Il punto di maggior criticità -ed anche l’unico sul quale mi soffermerò- è quello che riguarda l’atteggiamento di padre Tosolini (d’ora in poi p. T.) nei confronti del buddismo e del “dialogo” religioso. Usando alcuni degli esempi possibili mi servirò delle sue parole per spiegare ciò che voglio dire; sono cosciente che citare un testo puntando il dito è spiacevole: me ne scuso con l’Autore e con i lettori, ma con questo mezzo di comunicazione mi sarebbe molto difficile operare diversamente.
Cominciamo non dall’inizio ma da p. 73, dove p. T. cita una frase del Prajñāpāramitāhṛdayasūtra, noto come Sutra del cuore. Non importa che consideri scritta in giapponese la versione citata quando è invece scritta in cinese…

non importa che ne citi una frase -traslitterata in giapponese- e fornisca la traduzione solo di una parte di quella, come fosse la traduzione completa, ma sono le conclusioni a cui, a poco a poco, arriva p. T. che mi perplettono, passando prima da «un contenuto profondo e quasi eterno» (se l’espressione “quasi eterno” fosse usata in senso ironico sarebbe splendida, invece a me fa pensare a… “braccine corte”) sino ad interrogarsi sulla vacuità che però, inopinatamente, d’emblée diventa Vacuità che, si dice subito (p. 74) «non deve essere confusa con il Nulla» (anch’esso maiuscolo). Non è la prima volta, in questo testo, che p. T. usa “a tradimento” le maiuscole, lo fa già con “Nulla” prima a p. 20-21 poi proprio in fondo a p. 41, una pagina che senza quel segnetto marcato sarebbe stata molto bella. Nel buddismo (e perciò nel Sutra del cuore o Prajñāpāramitāhṛdayasūtra o, alla giapponese, Hannya Shingyō) il senso di “vuoto” -da cui poi “vacuità”- è detto chiaro 2000 anni or sono da Nāgārjuna nella Mādhyamakakārikā, Le stanze del cammino di mezzo (XXIV, 18): «Vacuità è una designazione metaforica», ovvero: vacuità è una parola con cui tentiamo di descrivere lo stato essenziale delle cose. Non c’è una “cosa” (e a maggior ragione una “Cosa”) chiamata “vacuità”. Quando dico che le mie tasche sono vuote (ed è questo il senso di cui parla Nāgārjuna) non sto parlando del vuoto nelle mie tasche che, se abilmente manipolato (per esempio come metafora di una Presenza invisibile ma vicinissima…), può diventare il Vuoto nelle mie tasche. Nella storia della letteratura religiosa ci sono almeno tre casi estesi in cui si è provato a manipolare il vuoto (ricordo tra l’altro che questa parola è la traduzione dell’originale śūnya che letteralmente significa “zero”) in modo da farlo diventare il Vuoto: da parte del nazionalismo giapponese, da parte dei primi appartenenti alla Scuola di Kyoto (in particolare dal suo fondatore Nishida Kitarō) e dai cristiani (come Knitter, per intenderci) che non sanno, o non vogliono, accettare la possibilità del non teismo in una religione completa, ovvero pare abbiano necessità di collocarLo da qualche parte. I primi due casi in parte coincidono e non è qui la sede per spiegare perché, il terzo è quello di fronte al quale ci troviamo nel caso del libro di p. T.
Nei libri d’autore cristiano che si “occupano” di buddismo non è insolito che, prima o poi, in una maiuscola o in un’espressione dal senso sfumato cominci a far capolino Lui; o nell’uno che diventa Uno, nella Mente (anch’essa unica, di solito), nella Relazione-di tutte-le-cose (perché, si sa, Dio è relazione…), oppure nel Vuoto, se non nel Nulla Assoluto. È una compulsione a cui, pare, questi autori non sanno rinunciare. Riconoscono, a livello di informazione, che il buddismo è una religione in cui non si parla di Dio e che quindi non contiene alcuna speculazione su di Lui… ma poi sembra che in realtà non ci credano, così frugano in ogni angolo e, trovata la parola adatta, pare che dicano: «Aaah, ecco dove Si era cacciato, lo sapevo: ce L’hanno anche loro…». Ma se, puta caso, un buddista scrivendo di cristianesimo considerasse una sorta di refuso quella Paroletta di tre lettere, eliminandola del tutto dal senso del discorso sostenendo che è un errore degli antichi redattori… da parte cristiana sarebbe considerato un buon metodo per il dialogo, per costruire quel famoso ponte (la metafora del ponte è di p. T., cfr. per es. p. 8)? Se entro “in casa” altrui con intenzioni dialoganti non penso sia buona politica cercare subito di eliminare il Padrone di casa o, viceversa, di imporre il Mio.
Invece (p. 75): «”Vacuità” è la parola che viene usata per indicare la realtà trascendente, il Nirvana», solo perché è scritto che anche il nirvana è vuoto. Di nuovo si annulla la differenza tra “anche le tasche di Mario son vuote” e “anche nelle tasche di Mario si può trovare il Vuoto”. E si creano i presupposti, del tutto arbitrari, per cui: 1) I buddisti postulino una realtà trascendente, 2) Questa sia detta “Vacuità”, 3) Coincida con il Nirvana. Subito dopo, nella stessa pagina, p. T. cita T.R.V. Murti che a sua volta cita Nāgārjuna nella nota affermazione «Non c’è differenza alcuna tra Nirvana e Samsara» ma non pare proprio accorgersi che sta citando una citazione di Nāgārjuna. Questo -se si vuol scrivere seriamente di buddismo- è un errore grave; pensate a come sarebbe considerato il mio lavoro se, scrivendo di cristianesimo, citassi «in principio era il Verbo…. ecc.» oppure «non son più io che vivo ma…. ecc.» attribuendone la paternità, che so, a Panikkar, a Merton…
Ma, a parte questo, nella spiegazione si tenta (grazie anche al contributo della scuola di Kyoto) di dare una spiegazione logica a quella “semplice” affermazione di Murti § Nāgārjuna, come fosse un gioco di parole, una carineria dialettica. Quando invece -in senso buddista- quell’affermazione può essere solo condivisa perché parte della propria vita, o rifiutata, perché estranea. Penso possa essere uno di quei casi per cui vale la terribile frase di Matteo (5, 37): “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”.
E qui ci cominciamo ad addentrare in una brutta china, che conduce a qualche cosa di simile alla supponenza e che, purtroppo, si dispiega in altre pagine. Per esempio, nel capitoletto dedicato al “dovere del dono”, a pp. 140 ss. viene introdotto il termine upekṣā; questa parola sanscrita, spesso tradotta con “equanimità”, descrive l’equilibrista che ondeggia sul filo della posizione di mezzo, ovvero tutte le posizioni: è la capacità, qualità dell’animo di gestire la vita fuori da ogni preferenza. P.T. qui sale in cattedra e ne parla in questi termini: «L’upekṣā, infatti, non è altro che quello stato “neutro” in cui si eclissa ogni relazione d’amore fraterno e sensibile, eliminando ogni moto o istinto che spinga a vedere nelle necessità dell’altro un proprio grido d’aiuto, nella destituzione di chi “non ha” una propria forma di privazione» ignorando, così pare, che non si eclissa e non si elimina nulla nell’animo umano: se un sentimento o un istinto sorge è sorto, porsi a tentare di eliminare certe cose è un’inutile e vana fatica. Successivamente chiama in causa un prof. giapponese, Nagao Gadjin, studioso di buddismo, che parlando di upekṣā esordisce, male, con: «L’indifferenza…» e chiude, peggio, con: «Sembra sia una caratteristica propria del buddhismo considerare questo stato di cose come il “bene”, la virtù suprema», se il professor Gadjin invece di esaminare il buddismo come una farfalla infilzata ad uno spillone cercasse di viverlo, lo saprebbe, almeno un po’, invece di azzardare conclusioni precedute da “sembra”. Infine l’argomento viene presentato da p.T. («il buddhismo afferma che…») con le parole di un autore (presumo buddista) giapponese (S. Yamaguchi): «la pura donazione è un attività disinteressata grazie alla negazione della coscienza intenzionale del donatore … La donazione non riconosce né l’io che offre né il tu che riceve…». Senza infamia e senza lode, direi della frase di Yamaguchi, come scriveva sui miei compiti in classe la mia vecchia prof. Però, subito dopo, p. T. si chiede, in crescendo: «Chi non simpatizzerebbe con l’idea che la pura donazione debba implicare la negazione sia della superiorità dell’io che offre che quella dell’inferiorità del tu che riceve?», cavando dal cappello, inopinatamente, “negazione”, “superiorità dell’io” e “inferiorità del tu”, e poi aggiunge: «perché l’analisi della donazione dovrebbe riguardare soltanto l’atteggiamento dell’offerente oscurando quasi del tutto il bisogno oggettivo invocato dal ricevente?» E siamo già in mare aperto rispetto alla frasetta di Yamaguchi. Poi una lunga citazione (p. 141) di Emmanuel Levinas «sulla donazione e sull’alterità dell’altro» dalla quale p. T. evince: «Ecco, forse la differenza del dono in quanto dono risiede qui. Esso non è un optional che l’offerente spontaneamente dà dopo aver intinto il suo sé, la sua offerta e l’altra persona negli invisibili e indistinguibili colori del Nirvana. Esso è invece un obbligo e un dovere verso l’altro, il gesto che un “io” deve offrire a un “tu” […]». Dalla gratuità e dalla piena ricchezza di upekṣā dove l’azione comprende io e tu senza separarli, siamo arrivati a «l’obbligo e al dovere verso l’altro, il gesto che un “io” ecc.». Non basta, la conclusione è ancora più “forte”: «Il donatore è colui che, nell’istante sconosciuto ma assoluto del proprio donare, riceve subito in cambio ciò che in giorni, mesi, anni di solitaria fatica un buddhista ricerca di continuo come un tesoro perduto e mai posseduto: il senso del proprio “non-io”» e così scompare ogni tipo di gratuità, cristiana, buddista o senza genitori. Lasciando quello sprovveduto buddista alla ricerca del tesoro perduto: il senso del “non-io”. Bisognerebbe avvisarlo, quel povero buddista, di non buttare gli anni in quel modo.
La gratuità di “marca” buddista è molto difficile da intendere ed ancor più da realizzarsi ma questo non autorizza né a ridicolizzarla né a vagheggiare di ciò che «in giorni, mesi, anni di solitaria fatica un buddhista ricerca di continuo come un tesoro perduto e mai posseduto». Mi ricorda lo sketch di quel tale che avuta in dono una banana ne mangia la buccia gettando via il resto e poi scrive un trattato sull’incommestibilità delle banane. Il buddismo non è, mai, il racconto del buddismo. Immaginare un buddismo arbitrario (ovvero non edificato con la propria vita), magari con l’aiuto di autori più o meno bravi, per poi criticarlo non è un bell’esempio di ponte tra Oriente e Occidente.
Per non eccedere in parole tralascio altri esempi e traggo le conclusioni, usando quelle di p. T. che afferma (p. 205): «E infine è qui che il messaggio evangelico può incarnarsi […] solo in questa maniera l’invisibilità di cui i giapponesi sembrano soffrire potrà schiudersi…» insomma: vabbe’, buddismo, shintoismo, ponti, dialogo sono una bella cosa, ma la vera, l’unica religione che salva è la nostra!
Negli anni settanta, il sacerdote e monaco cristiano Divo Barsotti in Meditazioni cristiane sulla spiritualità giapponese scriveva: «Dal momento che il cattolicesimo è la religione vera, il Giappone realizzerà pienamente sé stesso soltanto quando sarà cattolico… ecc. ecc».
Da come cresce il ponte ci conviene sperare che si avvicinino le sponde…