Verso la metà del VII secolo a.C. Lesbo, un’isola del Mar Egeo che, per quanto piccola, era tuttavia evoluta e fiorente in quanto aperta, insieme ai traffici commerciali, anche agli apporti e agli scambi culturali e politici con tutto il bacino del Mediterraneo mediorientale, diede voce alla più grande se non forse unica poetessa – di genere femminile – del mondo greco, Saffo. Attraverso l’esigua manciata di versi giunti fino a noi, entriamo con lei nel tiaso femminile, una sorta di scuola dove le ragazze dell’aristocrazia imparano le virtù richieste a una donna:

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l’amore, l’eleganza, la raffinatezza, la musica, l’arte della seduzione e, ancora e soprattutto, l’amore,

le cui regole esse apprendono grazie al canto dell’esperienza individuale della maestra che si fa modello di un percorso universale. Afrodite, la dea potente che esige, come tutti gli dei, la stretta osservanza delle sue regole da parte di ogni essere vivente, è la sovrana protettrice del tiaso e l’ispiratrice della poesia di Saffo che indirizza le sue alunne al culto della dea con le cerimonie rituali, con l’esercizio dell’amore sia sul piano affettivo che su quello fisico, col canto delle sue odi in cui si presentano liricamente tutte le sfumature, i turbamenti, le angosce, la violenza e la gioia che caratterizzano l’azione di Eros, da lei definito altrove (fr. 130 V. ) “dolceamaro” con un aggettivo che oggi è consueto ma che certo non era tale 27 secoli fa, quando è coniato per la prima volta da Saffo per esprimere con un’unica parola il conflitto e la mescolanza di emozioni risvegliate dal sentimento d’amore.

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Da qui nasce la più famosa lirica della poetessa eolica, forse la più famosa e certo la più imitata tra tutte quelle a noi giunte dal mondo antico.

“Mi sembra sia simile agli dei quell’uomo che di fronte a te siede e da vicino ti ascolta parlare dolcemente e ridere così da eccitare il desiderio, e ciò a me turba il cuore nel petto: infatti, quando appena ti vedo, allora non mi è più possibile parlare, ma la lingua si spezza, e sottile un fuoco scorre subito sotto la pelle, e nulla cogli occhi vedo, e rombano le orecchie, e freddo sudore si effonde, e un tremito mi prende tutta, e sono più verde dell’erba, e mi sembro poco lontana dall’esser morta…” (fr. 31 V.)

Passarono i secoli e la civiltà arcaica di Lesbo sfiorì, sopraffatta dalla dominante Atene che impose, insieme all’egemonia politica, anche quella dei propri modelli culturali. Ma quando la Grecia divenne provincia romana e i vincitori entrarono in contatto con quei prodotti di poesia – e altro! – che in qualche modo avevano vinto il trascorrere del tempo, la voce della poetessa greca fu raccolta e riproposta da Gaio Valerio Catullo, il primo dei suoi traduttori/imitatori, che furono poi numerosi fino all’età moderna in molte delle letterature europee.

“Mi sembra che sia simile a un dio, che – se è lecito dirlo – sia superiore agli dei colui che, a lungo seduto di fronte a te, ti guarda e ti ascolta ridere dolcemente, e ciò a me misero strappa tutti i sensi: infatti, Lesbia, come ti vedo, nulla mi resta (…), ma la lingua è intorpidita, sotto le membra si stende una tenue fiamma, le orecchie tintinnano di un proprio suono, e gli occhi sono coperti da notte gemella.“ (Carm. LI)

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Non so in che misura si possa avvertire dalla traduzione italiana la differenza di tono tra i due componimenti, da una parte la violenza distruttiva della passione, dall’altra l’eleganza di sensazioni raffinate. Sottolineo come esempi il “tintinnare” delle orecchie che ha sostituito nel testo latino il “rombare” originale, l’”intorpidirsi” della lingua in luogo del suo “spezzarsi”, la scomparsa dell’avverbio himéroen riferito al “ridere” della donna amata – l’avverbio, foggiato sul sostantivo hìmeros che significa il desiderio amoroso e che ho reso con la perifrasi: “così da eccitare il desiderio”, si è eclissato per lasciare tutto lo spazio alla “dolcezza” diffusa dal parlare e dal ridere della donna; ugualmente è scomparso quel defluire del sangue che scolora il viso e le membra e ha in sé un sentore di morte.I circa sei secoli di distanza nel tempo intercorsi tra l’archetipo greco e la sua imitazione latina, la differenza sostanziale tra i due ambienti socio–culturali, hanno contribuito allo svilupparsi nel poeta “imitatore” di una sensibilità lontana da quella della poetessa di Lesbo. Catullo non è interessato tanto alla fisicità dell’eros quanto ai moti da esso sollevati nell’intimo di una psiche complessa, ed è proprio nello svelare e descrivere tali moti che il poeta tocca il vertice della sua arte: così nel carme LXXXV:
“Odio e amo. Forse chiedi perché io faccia questo. Non lo so, ma sento che accade, e mi tormento.”,
o nei versi conclusivi del carme VXXII:
“… una tale offesa costringe chi ama ad amare di più, ma a voler meno bene.”.

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Eros, Himeros e Pothos sono le tre gradazioni del sentimento amoroso. Il primo è lo struggimento della mente e dei sensi; il secondo è il desiderio che emana verso l’oggetto d’amore presente, il terzo è lo stesso desiderio verso l’oggetto d’amore lontano.

(a c. di Cristina Carbone)