Ma-che-angelo?

Le spine e’ chiodi e l’una e l’altra palma
col tuo benigno umil pietoso volto

Questi due versi sono tra i testi più belli in assoluto che siano stati dedicati alla Sindone.

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Ogni tanto in questa rubrica torniamo sul tema (magari in modo un po’ “velato”). Il motivo è che nel Sacro Lino custodito a Torino, oltre a un pizzico di orgoglio campanilista, è racchiuso in sintesi tutto ciò che vorremmo dire, e tutto ciò che non riusciremmo mai a dire, con queste riflessioni dedicate alla sottile linea di confine tra immagine e irrapresentabilità.

Questi due versi li ha scritti Michelangelo Buonarroti nel sonetto Scarco d’un’importuna e greve salma, composto nel 1555 o dopo, a 80 anni o più. Descrivere l’indescrivibile è un’impresa ardua, soprattutto in questo caso, in cui il soggetto della raffigurazione è nientemeno che l’Assoluto, e la Sindone presenta un’impronta quasi impercettibile, e soprattutto perché Michelangelo non l’aveva mai vista! Ma allora, come ha fatto a renderla così bene, con due colpi magnifici di penna?

Durante la vita del Buonarroti, il Sacro Lino non era ancora alloggiato nella capitale piemontese ma a Chambéry, con tappe a Nizza e a Vercelli per questioni di sicurezza. Non risulta che il pittore si sia mai recato in una di queste località.

Tuttavia a Roma era custodita una reliquia che in un certo senso era la gemella della Sindone, vale a dire la Veronica, mostrata pubblicamente per l’ultima volta nel 1601. Nel 1608 sparì, anche se il Vaticano continua ogni tanto a esporre una copia… senza dire che è tale. È molto più facile che nel ’500 Michelangelo abbia potuto vedere quest’altra reliquia della Passione.

Eppure la Veronica mostra solo il volto di Gesù, mentre nel sonetto Michelangelo indica i fori dei chiodi nelle mani (“l’una e l’altra palma”, con una citazione da Dante), che sono tra i dettagli più evidenti sulla Sindone.

Si potrebbe concludere che la poesia ha un significato generico, e si riferisce alla morte in croce del Cristo, non specificamente al lenzuolo che lo avvolse. Ci permettiamo però di insistere, sulla base dell’ultima opera da lui realizzata, la più intensa, quella a lui più cara, rielaborata fino agli ultimi giorni di vita: la Pietà Rondanini.

Osservando la scultura, ci si può chiedere a chi appartenga il moncone di braccio che spunta sulla sinistra. Apparteneva a Gesù, nella prima versione. Una testa di Cristo ritrovata nel 1972 (vedi prima foto) si adatta perfettamente alla Pietà (vedi seconda foto): in origine, Gesù, sostenuto da Maria, aveva fattezze da bel giovanotto, ed era lievemente inclinato. Poi Michelangelo cambiò idea, eliminò il pezzo superiore della statua, riscolpì il busto di Gesù in posizione verticale e gli diede un volto diverso.

Il risultato finale è il più stupendo non-finito che Michelangelo abbia mai realizzato. Non-finito. Un corpo verticale. Una pelle scabra, attraversata da solchi, da corrugamenti, come una striscia di stoffa. Un volto semi-cancellato, un po’ visibile un po’ no.
Pretendiamo troppo, se ipotizziamo che lo scultore volesse fare – non copiare – una Sindone in 3-D?

Michelangelo era vecchio e stanco (“importuna e greve salma”). Per tutta la vita aveva lottato su due fronti, la ricerca di Dio e la passione omosessuale, che si sintetizzavano nelle forme perfette del Figlio dell’Uomo. Adesso riteneva che tutta la sua fatica era stata inutile: “Con tanta servitù, con tanto tedio / e con falsi concetti e gran periglio / dell’alma, a sculpir qui cose divine”, scrive in un’altra poesia.

Gli resta solo quello, il volto che è non-volto, il corpo che è non-corpo. Il più grande creatore di immagini della pittura occidentale si spegne di fronte a un’icona che è non-icona.

Signor mie caro, e dal mondo disciolto…