Allora se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: É là, non ci credete.
[…] Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: É in casa, non ci credete.
[…] Dovunque sarà il cadavere, ivi si raduneranno gli avvoltoi»
Mt 24,1-37

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«Dov’è una carogna in putrefazione gli uccelli da preda volteggiano e calano al suolo. […] Questo librarsi, questo volteggiare, questo calare, questa celebrazione di vittoria, non sono ciò che si intende per studio dello zen – anche se possono costituire un esercizio utilissimo. Non c’è alcun cadavere da trovare. Sul luogo in cui si crede che vi sia, gli uccelli vengono per un po’ a volteggiare. Ma presto volano altrove. Quando se ne sono andati, il “nulla”, il “nessun corpo” che era lì, tutt’a un tratto appare».

Cfr. Thomas Merton, Lo zen e gli uccelli rapaci, Garzanti, Milano 1999, p.1.

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«Una persona ordinaria, o monaci, che non ha ricevuto gli insegnamenti […] concepisce la forma materiale nel modo seguente: “Questa è mia, questa sono io, questa è il mio sé”. […] così la sensazione: “Questa è mia, questa sono io, questa è il mio sé”. Così vede la percezione: “Questa è mia, questa sono io, questa è il mio sé”. Così vede le formazioni: “Queste sono mie, queste sono io, queste sono il mio sé”. Essa vede nel modo seguente ciò che è visto, udito, toccato, conosciuto, incontrato, cercato e mentalmente considerato: “Questo è mio, questo sono io, questo è il mio sé”.

E anche il seguente punto di vista: “Questo è il sé. Questo è il mondo; dopo la morte io sarò permanente imperituro, eterno, non soggetto a cambiamento; durerò per l’eternità”, anche questo punto di vista egli considera così: “Questo è mio, questo sono io, questo è il mio sé”. O monaci, un nobile discepolo, che ha ricevuto gli insegnamenti […] percepisce la forma materiale nel modo seguente: “Questa non è mia, questa non sono io, questa non è il mio sé”. Così egli vede la sensazione: “Questa non è mia, questa non sono io, questa non è il mio sé”. Così intende la percezione: “Questa non è mia, questa non sono io, questa non è il mio sé”. Così vede le formazioni: “Queste non sono mie, queste non sono io, queste non sono il mio sé”. Egli concepisce nel modo seguente ciò che è visto, udito, toccato, conosciuto, incontrato, cercato e mentalmente considerato: “Questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé”.

E anche il seguente punto di vista: “Questo è il sé. Questo è il mondo; dopo la morte io sarò permanente imperituro, eterno, non soggetto a cambiamento; durerò per l’eternità”, anche questo egli considera così: “Questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé”. Poiché egli intende così queste cose, non è agitato da ciò che non esiste.»

Dal capitolo “I sei modi di vedere” de: Alagaddūpamasutta, Il discorso dell’esempio del serpente, Majjhima Nikāya 22. Traduzione a c. di Francesco Sferra in La Rivelazione del Buddha, I testi antichi, a c. di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, vol. I 240 s.

«Innanzi tutto la coscienza cristiana dell’uomo moderno non può essere assolutamente quella dei romani del primo secolo sotto l’impero. Non può che essere una coscienza moderna. […] La coscienza moderna tende allora a creare questa bolla solipsistica di consapevolezza – un io-sé imprigionato nella propria coscienza, isolato e fuori da ogni contatto con gli altri “sé” in quanto sono tutte cose più che persone. E’ questo il tipo di coscienza esacerbata fino all’estremo, che ha reso inevitabile la cosiddetta “morte di Dio”. Il pensiero cartesiano cominciò col tentativo di raggiungere Dio come oggetto partendo dall’io pensante. Ma quando Dio diventa oggetto, presto o tardi “muore”, […] salvo che venga cristallizzato in un idolo mantenuto in vita da un semplice atto di volontà. Per molto tempo l’uomo ha persistito in questa ostinazione; ma ora lo sforzo è diventato stremante e molti cristiani hanno capito che è vano. Allentando la stretta, hanno lasciato perdere il Dio-oggetto che ancora i loro padri e i loro nonni avevano sperato volgere ai propri fini», cfr. Thomas Merton, Lo zen e gli uccelli rapaci, cit., p. 30.

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«Liberata dalla tensione di mantenere ostinatamente in vita un oggetto-Dio, la coscienza cartesiana rimane nondimeno imprigionata in sé stessa. Di qui il bisogno di evadere dal proprio io e di andare verso “gli altri” in “incontri”, “aperture”, “solidarietà” e “comunione”. Ma il grande problema è che per la coscienza cartesiana anche “l’altro” è oggetto. È veramente possibile una relazione io-tu a un soggetto puramente cartesiano? Frattanto ricordiamo che l’uomo moderno dispone ancora di un’altra coscienza, quella metafisica. Essa ha origine non dal soggetto pensante e consapevole di sé, ma dall’Essere, considerato ontologicamente anteriore alla divisione soggetto-oggetto [In questo caso quel “Essere” di cui parla Merton comprende anche il “non essere”]. Alla base dell’esperienza soggettiva dell’io individuale c’è un’esperienza immediata dell’Essere che è totalmente diversa dall’esperienza di autocoscienza. […] Non è “coscienza di” ma pura coscienza, nella quale il soggetto come tale “scompare”. […] In breve questa forma di coscienza assume un tipo di autoconsapevolezza diversa da quella dell’io pensante cartesiano […] Qui l’individuo è consapevole di sé come un io-da-dissolvere nel donarsi, nell’amore, nell’abbandonarsi, nell’estasi di Dio. […] Questo è un linguaggio più o meno metafisico ma c’è anche un modo non metafisico di esprimere questi concetti. Non considera Dio né come immanente né come trascendente, bensì come grazia e presenza, quindi né “centro” immaginato “fuori di lì” né “dentro di noi”. Lo incontra come Libertà e Amore». Ivi, p. 32.

«Nello studio del buddismo sarebbe un grave errore soffermarsi esclusivamente sulla dottrina, la filosofia formulata della vita, e trascurare l’esperienza che è assolutamente fondamentale, l’essenza del buddismo. Questa è in un certo senso la situazione opposta a quella del cristianesimo. Perché il cristianesimo comincia con la rivelazione. Pur essendo un errore classificare la rivelazione cristiana semplicemente come una “dottrina” o una “spiegazione” (è molto di più: la rivelazione di Dio nel mistero di Cristo), ci viene però comunicata in parole, in affermazioni, e tutto dipende dal fatto che il credente accetti la verità di queste affermazioni». Ivi, p. 46.

«Il lettore con un fondo giudeo cristiano (e chi non ha ancora in Occidente un fondo simile?) sarà naturalmente predisposto a fraintendere lo zen perché si metterà istintivamente nella posizione di chi ha innanzi a sé un sistema di pensiero rivale, o un’ideologia concorrente o una visuale aliena del mondo o più semplicemente una falsa religione. Chi assume tale posizione si trova nell’impossibilità di capire lo zen perché parte dalla presunzione che sia qualche cosa che esso si rifiuta espressamente di essere. Lo zen non è una spiegazione sistematica della vita, non è un’ideologia, non è un modo di vedere il mondo, non è una teologia della rivelazione e della salvezza, non è una mistica, non è una via di perfezione ascetica, non è misticismo come s‘intende in occidente; insomma non rientra in nessuna delle nostre categorie. Quindi ogni tentativo di “appioppargli” un etichetta come “panteismo”, “quietismo”, “illuminismo”, “pelagianesimo”, sarebbe assolutamente assurdo derivando dall’ingenua supposizione che lo zen pretenda di giustificare le vie di Dio verso l’uomo e [per di più] di farlo falsamente». Ivi, p. 43.

«Nel cristianesimo la dottrina oggettiva mantiene la priorità sia di tempo sia di valore. Nello zen l’esperienza precede sempre, non nel tempo ma in importanza. Ciò perché il cristianesimo è una religione della grazia e del dono divino, quindi di totale dipendenza da Dio. Lo zen non è classificabile come “religione” (è infatti separabile da ogni matrice religiosa e potrebbe fiorire sul terreno delle religioni non buddiste o di nessuna religione), e in ogni caso cerca, come ogni buddismo di rendere l’uomo completamente libero e indipendente, anche nei suoi sforzi per la salvazione e l’illuminazione». Ivi, p. 52.

«Lo zen è allora non kerygma ma conoscenza, non rivelazione ma coscienza, non la Lieta Novella del Padre che manda il Figlio suo in questo mondo, ma la consapevolezza del fondo ontologico del nostro essere qui e ora, appunto in mezzo al mondo. […] Il kerygma soprannaturale e l’intuizione metafisica del fondo dell’essere sono tutt’altro che incompatibili. Si può dire che uno prepari la via all’altra. Possono essere benissimo complementari fra loro, e per questa ragione lo zen è perfettamente compatibile con la fede cristiana e addirittura con il misticismo cristiano». Ivi, p. 54