L’arte che “alluminar” chiamata è in Parisi

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Miniature di cemento, estese per centinaia di metri quadrati.
A realizzarle è stato l’ultimo degli artisti medievali, un frate cappuccino di nome Ugolino: Ugolino da Belluno. Le sue opere, come quelle dipinte sui codici del Tre-Quattrocento, uniscono esemplarità dei temi, devozione e audacia. È tutto un fiorire di decorazioni vegetali, animali irrequieti, simboli sacri, note gregoriane, e i misteri del cristianesimo come nessun altro aveva mai osato raffigurarli. Padre Ugolino ha negli occhi le basiliche romaniche, e intanto tiene Wittgenstein sul comodino.

Il suo nome, al secolo, era Silvio Alessandri; nato nel 1919, ci ha lasciati nel 2002. Ha lavorato con il bronzo, con il mosaico e con l’“affresco graffito”, una tecnica da lui inventata che consiste nello stendere su un muro vari strati di cemento colorato, e poi grattare le superfici fino a ottenere il disegno. La sua cifra stilistica, che lo rende riconoscibile dappertutto – da Centocelle a Granada – sono le “figure ombra”, cioè immagini sdoppiate in cui all’elemento in primo piano se ne associa uno, più scuro, che ne amplifica il significato.
Spesso si tratta di semplici effetti stroboscopici, come quando la figura ombra di un uccello in volo è lo stesso animale in posizione diversa, in modo da creare l’illusione del movimento. Altre volte emerge un significato spirituale: “dietro” un frate che predica c’è san Francesco; dietro il povero che chiede, c’è Gesù.
Ma soprattutto, questo gioco ottico viene applicato al Mistero per eccellenza, la morte e risurrezione del Cristo. A volte la prima fa da ombra alla seconda, altre volte il contrario. E sempre, sempre, sempre, da questo Crocifisso-Risorto si dipana un groviglio di spine, il tutto avvolto da una luce rossa.

Che cos’è? “Togliti i sandali, perché questo è terreno sacro”. È il roveto ardente, enigma in cui salta il normale rapporto tra significante e significato (“Perché il roveto non brucia?”). Così, più Ugolino si sforza di definire nei dettagli l’Incomprensibile, più esso fugge in lontananza. Più lo spettatore si lascia catturare da quei grotteschi crocifissi, da quei luminosi risorti, meno si accorge dell’esplosione muta e vermiglia che avvolge ogni cosa. Non a caso, nella parte alta degli affreschi compare più volte la scritta JHWH in caratteri ebraici, il Nome impronunciabile, oppure, altrettanto impronunciabile, il JHS cristiano.
Ancora più spesso, Ugolino decora intere pareti o archi con sequenze di note, del tipo usato per il canto gregoriano, ma… senza pentagramma. Pura effusione lirica.
Il limite è che pitture che sarebbero perfette su una pagina miniata, diventano un po’ oppressive su una parete enorme. Per questo, più delle fin troppo squillanti absidi ammirate dai Papi, da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II, si lasciano gustare alcuni dettagli defilati. Come gli uccelli, degni di Hokusai, affrescati nella chiesa di Santa Maria della Marina a San Benedetto del Tronto.
Un capolavoro è la cappella dell’eucaristia della chiesa di San Francesco a Sassari (nella foto). Qui frate Ugolino, con genialità dadaista, ha abbinato un sepolcro paleocristiano in marmo a uno scuro tabernacolo barocco, poi sui muri ha dipinto tralci di vite, uccelli e un cervo, in bianco, nero, grigio e varie tonalità di terra e ocra.
E Lui, Lui dov’è? Da nessuna parte, quindi dappertutto.

dr