Dopo l’invio del testo La Pantomima tramite mail list, si è sviluppata un’ampia discussione che qui prosegue tutt’ora. Pubblichiamo oggi un contributo al “discorso” che pare alieno sia per la sua collocazione religiosa sia per un’apparente contraddizione con il testo de La Pantomima. Dico “pare” alieno e “apparente” contraddizione perché a mio avviso è una parte dello stesso discorso. Ovviamente mutatis mutandis: vi si parla di Dio, di Gesù, del Cristo,

dello Spirito santo, persino di una pratica comunitaria che pare assumere il ruolo di veicolo salvifico proprio in quanto comunità e che, quindi, in qualche modo si contrappone al singolo, a chi segue la via nella quotidianità senza appartenere, almeno fisicamente, a gruppi o comunità particolari.
Il testo, pubblicato sul n. 49 della Lettera agli amici – Qîqājôn di Bose è estrapolato dalla

Omelia di fr. Enzo nella veglia della Trasfigurazione:

[…] Noi monaci non abbiamo una particolare missione o funzione nella chiesa: siamo semplicemente uomini e donne insieme, da un punto di vista umano, quasi per caso. Siamo qui, siamo là, nei deserti o nelle selve, sui monti o nelle valli, per che cosa? Per stare davanti a Dio insieme, in una vita comune, niente più. Non facciamo nulla di particolare se non rimanere davanti a Dio

[…] I monaci camminano in gruppo, sono una carovana: il loro nome è koinonía, comunità, comunione. […] Lo ripeto, i monaci non hanno compiti, non hanno missioni particolari: se sono fedeli alla vocazione ricevuta «fanno segno», sono come dei segnali sul cammino, niente di più. Alla loro carovana si uniscono altri con il passare degli anni, ma il cammino è lungo: anche quelli che a un certo punto si sono impegnati in questo cammino sono tentati di prendere altre vie. […] La comunità non può promettere nulla a quanti questa sera si impegnano definitivamente, se non che qui potranno vivere il Vangelo e che qui potranno contare sull’amore reciproco, libero, gratuito […] È la cosa più importante perché chi non crede nell’amore non fa vita cristiana ed è fortemente minacciato nel suo cammino di umanizzazione. Occorre poi, nello spazio comunitario, decentrarsi, cioè trovare il centro non in se stessi ma nel Signore, e comunque non voler essere al centro della comunità, lasciando sempre Cristo al centro del nostro vivere. […] Occorre ancora dare accoglienza all’altro, decidendo di amarlo prima di conoscerlo. E non valgono né simpatie, né antipatie, né affinità elettive, perché nulla può essere preposto all’amore di Cristo. Il fratello, la sorella, è un dono di Dio, non lo scegliamo ma dobbiamo accettarlo come dono, con il suo modo di stare, di vivere i rapporti, di essere altro: gli possiamo solo chiedere di vivere il Vangelo, come lui lo può chiedere a noi. Occorre infine curvarsi sull’altro, per servirlo, per perdonarlo, perché prima o poi sarà malato, prima o poi sarà vecchio, prima o poi lo scopriremo peccatore, prima o poi verrà a trovarsi in una situazione di bisogno e ci chiederà di piegarci, di curvarci davanti a lui.
Sì, questi sono quattro verbi, quattro azioni senza le quali non c’è costruzione della comunità, ma in tutte occorre il soffio dello Spirito santo che le accompagni, le sostenga, le purifichi: credere all’amore della vita comune, decentrarsi nella vita comune, fare spazio all’altro nella vita comune, curvarsi sull’altro […] Allora potremo sperimentare «com’è bello, com’è buono che fratelli e sorelle siano insieme» (cf. Sal 133).

Bose, Veglia della Trasfigurazione, 6 agosto
Il priore di Bose
fr. Enzo