I. Una pericolosa deriva.

Si può fare ancora qualcosa per disinnescare la bomba a orologeria che ticchetta in sottofondo alle dichiarazioni che, da più parti, certificano un’epocale scontro di civiltà in atto? Scontro che, viste le attuali possibilità tecnologiche distruttive, rischierebbe di condurre non tanto al prevalere di una civiltà sull’altra, ma al trionfo dell’inciviltà e della barbarie?

La domanda ha un che di surreale, posta così in un contesto che invece appare tutto sommato pacifico, normale. Le nostre vite collettive scorrono relativamente tranquille, noi, democratico benestante tollerante occidente europeo, continuiamo a sperimentare un periodo storico che ha festeggiato l’inusitato genetliaco di sessantanni di pace ininterrotta. E’ vero, a due ore di volo in direzione sud e sud-est ci sono almeno due guerre cruente (in Israele e in Iraq) in atto, dall’altra parte dell’Adriatico la pace è una coltre di cenere su braci ancora rosse di sangue e di fuoco, più a sud ancora e più a est, in Africa e in Asia, si consumano collettive tragedie, ignorate dalla nostra pigra eurocentrica attenzione ma letali per milioni di esseri umani, e si attizzano odi e si affilano armi tremende… Ma, in rapporto all’effettivo scorrere delle nostre vite quotidiane, la guerra, le guerre, sembrano più che altro materiale televisivo, corollario spettacolare alle nostre pacifiche cene borghesi: ma dov’è mai la guerra, fra avveniristici spot pubblicitari che magnificano un mondo di cuccagna, di oggetti di lusso, di donne ammiccanti e golosità precotte, tutto a rate, a portata, che basta allungare la mano…Che assurdità è mai parlare di guerra imminente, o addirittura in atto, come sempre più spesso accade di sentir dire, con stupefacente nonchalance, da opinion maker e maître à penser alla moda (ora che siamo in guerra, diceva l’altro ieri con la massima naturalezza un famoso conduttore di una famosa trasmissione televisiva di tendenza)?

In realtà, non credo ci sia nessuno scontro di civiltà, né in atto né alle porte. Non vedo, nel panorama mondiale, civiltà contrapposte, portatrici di valori antitetici o comunque irrimediabilmente alieni gli uni agli altri, che si fronteggiano. Avrebbe senso parlare di scontro di civiltà qualora ci fossero, una di fronte all’altra, visioni radicalmente e strutturalmente diverse, visioni diverse di mondi diversi, con prospettive ed esiti diversi. Ma non di questo si tratta, anzi. C’è al contrario un’uniformità di veduta d’insieme, un’identità di concezione di fondo del vivere, un’omogeneità di prospettiva che coinvolge tutti gli attori del processo di civilizzazione del mondo. Certo, ci sono ancora in giro fautori della supremazia di un’etnia su di un’altra, ci sono cultori dell’apartheid razzista, culturale, religioso, ci sono spinte centrifughe del tutto prevedibili quando la forza centripeta si fa potente e prepotente e il centro verso cui attira appare lontano da dove noi siamo…. Ma tutto questo non ha niente a che fare con lo scontro di civiltà, sconsideratamente evocato. Davvero qualcuno pensa che movimenti, quale che sia la loro matrice e la loro momentanea consistenza quantitativa, che hanno nel terrorismo la loro unica (o quasi) manifestazione “politica”, siano portatori di valori, culturali, sociali, antropologici tali da poter essere definiti nel loro insieme “una civiltà”? Dare dignità di “civiltà” a queste manifestazioni è un gioco estremamente pericoloso, oltre che segno di pochissima stima e fiducia nel concetto stesso di civiltà.

Il vero problema contemporaneo è un’equa distribuzione del benessere (economico, culturale, fisico) fra la popolazione del mondo, non il fatto che si trovino di fronte, l’una contro l’altra, differenti concezioni del vivere e del morire, irriducibili l’una all’altra. Mi pare invece che lo scontro di civiltà sia più che altro nei voti di apprendisti stregoni di ogni parte, che alimentano ad arte tensioni certo presenti ma che non hanno lo status di scontro fra contrapposte visioni del mondo.

C’è, in questo evocare lo scontro, una paura del nuovo, una coazione a ripetere, che deriva in gran parte dalla paura di riconoscere i mutamenti della propria identità, più che dalla minaccia ad essa portata da identità altrui. Sarebbe necessario uno sforzo di tutt’altro genere, che non ripetere schemi vecchi di secoli. Il malessere che il benessere ci procura dovrebbe portare a ben altre riflessioni che non allo stantio e mortifero “si vis pacem, para bellum”. Ora che la pace l’abbiamo, instabile e traballante come le gambe di un convalescente, ma pur sempre in cammino – se continuiamo a preparare la guerra finiremo senz’altro per farla: anche perché quella la sappiamo fare, mentre la pace la stiamo appena imparando.

II. Scontro e/o incontro
Lo sforzo che sarebbe necessario non è dunque quello di prepararsi a lunghi, sanguinosi, devastanti scontri contro nemici non ben definiti, ubiqui, spesso aleatori, ma quello di prendere atto che quella che stiamo vivendo è una realtà di incontro – incontro con noi stessi (cioè con i mutamenti della nostra identità) e con gli altri, cioè con le differenze che sono le sfaccettature della medesima identità umana. In altre parole, dovremmo prepararci a vivere l’incontro, non lo scontro, dovremmo prepararci alla pace, non alla guerra. E prepararsi alla pace è molto più impegnativo che prepararsi alla guerra. Più impegnativo non perché sia più faticoso, più costoso, più sacrificante la pace della guerra, anzi: ma perché la preparazione alla pace implica un impegno individuale, una responsabilità personale diretta che si riversa sul piano collettivo, mentre la preparazione alla guerra è un coinvolgimento collettivo, una suggestione di gruppo, che non responsabilizza direttamente l’individuo ma gli ricade addosso quando poi la guerra è in atto. E’ molto più facile, per demagoghi, apprendisti stregoni, maître à penser di professione eccitare la sensibilità collettiva che rivolgersi alla coscienza individuale – è più facile giocare alla guerra che alla pace, non solo fra bambini ma anche fra adulti.

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