* Samsara, di Nalim Pam, 2001.

Alla fine del film l’impressione che rimane è formata di colori e di spazio; gli immensi panorami la cui ampiezza dà un ritmo particolare alla realtà diventano uno sfondo di tempo.

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Molto correttamente il film non risponde al quesito: la via del capofamiglia o quella dell’asceta, quale delle due è più “buddista”? La goccia che trova la sua casa nel mare, ovvero “non si asciuga”, nel buddismo mahayana non è necessariamente monaco: il laico ha pari opportunità. Anche nel buddismo vajrayana, volgarmente detto “tibetano”, vi sono lama sposati e lama che hanno scelto la via del convento. Dato il contesto, un punto particolarmente interessante del film è la frase di Tashi al suo lama: vivendo da sempre in monastero come posso praticare il distacco da ciò che non conosco? In questo vi è una relativizzazione dell’usanza tibetana di portare i bambini al monastero in tenera età e, implicitamente, anche al sistema esclusivamente tibetano del “tulku”, letteralmente “incarnazione”, che consiste nel riconoscere in un bambino parte o tutta la volontà di un defunto lama di continuare a percorrere la via.
Un piccolo particolare fuori posto è l’uso del termine “sua santità” come traduzione, ritengo, di “rin-poche”, letteralmente “prezioso gioiello”. L’attributo “sua santità”, forse inizialmente in inglese come “his holiness”, viene solitamente accostato anche al Dalai Lama creando l’impressione di una imitazione del titolo riservato al papa dei cattolici se non addirittura di voler legittimare il Dalai Lama nel ruolo di papa dei buddisti. Ruolo del tutto incongruo sia con la natura orizzontale del buddismo sia con la storia di quel titolo e del Tibet stesso.

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Da un punto di vista esclusivamente religioso, secondo il buddismo, a mio parere è un ottimo film dove l’intera problematica religiosa buddista è affrontata con cura e, soprattutto, senza dare risposte generaliste. Le domande sono proprio quelle che nascono in noi (perché la pietra lasciata cadere dall’aquila uccide la pecora?) e quelle che vengono esplicitate dagli interpreti. E vengono lasciate completamente aperte, senza ammiccamenti o cadute nello stereotipo. Correttamente l’impermanenza è in continuo agguato: ogni scena è come sospesa, ci si aspetta che possa accadere qualsiasi cosa. Anche perché Tashi mette in moto una sempre più grande mole di cause negative. Prima discute e poi addirittura arriva alla violenza per motivi di interesse, per poi insistere senza essere stato richiesto nel consigliare, condizionandolo, il comportamento del vicino ed infine cede al desiderio con una donna che non è sua moglie.

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Dicevo prima che correttamente il film non risponde su quale sia la “vera forma” del risveglio secondo il mahayana, non risponde non solo riguardo alla forma di vita da assumere come ruolo e come scelta di ambito vitale, ma non risponde neppure riguardo a quale sia il vero modo insegnato dal Buddha per vincere il dolore. L’unico spunto è posto nelle parole di un bambino che mimando le danze rituali dell’iniziazione si interrompe e, di fronte all’abate e a Tashi dice: «La prima delle quattro sante verità: l’esistenza del dolore. La via della sua soppressione è…» a quel punto si fa serio, porta una mano in verticale, davanti al naso, le dita tese, con il pollice aderente al palmo ed emette un suono, una vibrazione che viene ripresa dalle trombe roche del rito. Il suono è “om”, la vibrazione cosmica. La risposta a quale sia la via di soppressione del dolore si perde in quel suono.Un’altra indicazione è articolata da Perma, la moglie di Tashi, poco prima di lasciarlo libero di seguire la sua strada, qualunque essa sia: «Se tu avessi per il dharma la stessa passione che hai avuto per me potresti…». È una peculiarità del buddismo vajrayana di scuola tibetana la trasformazione delle passioni in energia-forza che mantiene sulla via, ma in ogni scuola buddista quella che possiamo definire la capacità di avanzamento sulla via, la grandezza come persona spirituale è misurata dall’intensità della passione che si è in grado di coltivare e indirizzare al servizio della pratica e dello studio. Così, il rovesciamento delle passioni nella conversione che è inversione di direzione, è un altro elemento che conferma l’affermazione buddista: «L’insegnamento del buddha non è tra le cose del mondo, l’insegnamento del Buddha non discrimina le cose del mondo».

Notiamo anche, nell’ultima scena del film, la riproposizione in chiave buddista del quesito “Marta o Maria”, con in aggiunta l’eterno dilemma di fronte al quale ci pone la realtà di fatto: qual è il ruolo della donna nella problematica religiosa? In questo film appaiono due dimensioni chiare della femminilità: l’oggetto del desiderio, la tentazione che allontana dalla via e la silenziosa custode di una realtà che permette -nel ruolo di madre o in quello di compagna- a ciascun buddha di essere tale, Marta che consente l’esistenza di Maria.

mym

2 Responses to “Samsara”

  1. fradamiano Says:

    Mi sembra che tutto il film graviti attorno alla scritta su una pietra : alla fine il protagonista la gira e legge la risposta .
    Nella mia versione del film non c’erano sottotitoli a tradurre la scritta. Qualcuno ne conosce il significato.
    ( credo che sia una specie di indovinello su come fa una goccia d’acqua a non asciugarsi fonte socka gokaj o giù di li.)

  2. mym Says:

    Peccato non aver visto la versione con i sottotitoli: per lo meno elimina il senso di “indovinello”. La prima volta sotto la pietra c’è scritto (più o meno): “Come si può impedire ad una goccia d’acqua di asciugarsi?”. La seconda pietra reca la scritta: “Immergendola nel mare”. Il mezzo cinematografico è difficile da usare (più della parola scritta) per esprimere religiosità. Ho avuto un’esperienza diretta a riguardo. Penso che il tentativo rappresentato da questo film sia il migliore attualmente su piazza. A parte il film girato da noi, naturlicht… 🙂

    mym

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