Questo testo è tratto dal libro Piccola guida al buddismo Zen nelle terre del tramonto, di M.Y.Marassi

L’immaginario occidentale attuale, riguardo allo Zen, è ancora in buona parte formato dall’immagine creata dal prof. Suzuki. Questo autore pose fine, apparentemente, all’epoca delle supposizioni: la sua opera venne considerata non più “parlare di” Zen ma, piuttosto, lo Zen medesimo.
Per parte occidentale questo avvenne soprattutto per un motivo. Mi riferisco a quello che Umberto Eco (Cfr. U. Eco, “Lo zen e l’Occidente”, in: Opera Aperta, Bompiani) ha definito la “vocazione dell’Occidente” cioè l’esigenza, nella nostra cultura, di rappresentare il mondo in un ordine leggibile dall’intelletto, una sorta di coazione a spiegare affinché tutto venga compreso. Il complesso dell’opera del prof. Suzuki, per sua stessa natura e apparenza “dice tutto” dello Zen e quindi può dar adito all’illusione di definirlo. In questa involontaria trappola sembra essere caduto, almeno al tempo dell’opera citata, lo stesso Eco che, infatti, chiama Zen anche situazioni da esso lontanissime perché, avendo visto e capito lo Zen, ne può parlare come di un’entità, descriverne le caratteristiche e quindi identificare analogie con situazioni, momenti “….epifanie-contatto..”.
Occorre, comunque, dare atto al professor Eco non solo di aver davvero capito ciò che vi è di comprensibile relativamente al buddismo Zen ma, soprattutto, di aver visto con eccezionale tempismo (il saggio sullo Zen inserito in Opera Aperta è del 1959) la mistificazione autoreferente del gruppo della beat generation, Jack Kerouak, Timothy Leary, Ginzberg, Borroughs, Ferlinghetti: “…i beatniks usano lo Zen come qualificazione del proprio individualismo anarchico…”.
Tuttavia, anche in questo autore, probabilmente contro le sue stesse intenzioni, dall’approccio descrivente un oggetto dato, in qualche misura fisso e che necessariamente è una raffigurazione arbitraria, discende l’aver ritenuto, per esempio, che il satori, l’illuminazione, sia “…vedere il mondo…in presa diretta…” oppure che i mondô, i dialoghi tramandati dalla tradizione, siano “….interrogazioni dalle risposte assolutamente casuali…”.
Eco, forse, non poteva andare oltre: proprio le sue fonti principali, da lui ampiamente citate, A. Watts e, appunto, D. T. Suzuki, non offrivano di più. In quelle opere, pur formidabili strumenti di attrazione e introduzione all’insegnamento della scuola Zen, non c’è lo Zen della tradizione classica, quello di Eihei Dōghen, di Lin-chi, di Bodhidharma, di Nagarjuna e Mahakasyapa, in ogni caso incontenibile da qualsiasi libro.
Ecco quindi che aspetti di religiosità importanti per ogni uomo, ma, ciononostante marginali nella assoluta peculiarità dello Zen, quali la consapevolezza del miracolo della vita, o icone comportamentali quali “…il sereno e affettuoso disimpegno del vero illuminato…” diventano lo Zen stesso o la sua immagine.
Considerando l’atteggiamento con cui sono stati letti i libri del professor D.T. Suzuki e vedendo la facilità con la quale vengono riempiti di affermazioni e definizioni le migliaia di siti Internet dedicati allo Zen, penso che continui tra noi occidentali l’ansia di far rientrare il buddismo, e persino lo Zen che ne è la sua proposizione più sconfinata, in qualche cosa che è già contenuto nel nostro retaggio culturale o che è comprensibile con gli strumenti da esso forniti: il ragionamento, le categorie filosofiche, la teologia, la psicanalisi, la scienza. Più recentemente, lo stesso meccanismo ha tentato di riproporsi, dopo un più o meno raffinato maquillage esotico, attraverso la conoscenza di una lingua, di una cultura, di una tecnica, presentate, con una forte componente sacrale, quali contenitori espressivi dell’Infinito.
Nel frattempo, vasta parte della chiesa della cristianità cattolica che si vorrebbe incarnazione vivente della religione che propone il passaggio attraverso la cruna dell’ago della completa accoglienza del tu, del fratello, dell’altro sino a farsi completamente e serenamente invadere, con questo altro, con questo mondo fratello che è il buddismo, continua a procedere con un’alterigia per nulla fraterna, più simile al fastidio di chi si occupa, per necessità storica, di qualche cosa che avrebbe volentieri ignorato con sufficienza. Questo è tanto più doloroso per chi, nato ed educato in Occidente, riconosce la propria identità e matrice nel respiro, nella cultura di questa parte del mondo pur avendo cercato altrove di placare la sete della propria anima. Come se quel cercare altrove fosse stato un tradire, da sancire con l’accusa di apostasia, accompagnata dal rifiuto della nuova spiritualità maturata.
In un libro di religiosità che ha avuto un grande successo editoriale negli ultimi anni si può leggere:
“…L’illuminazione sperimentata da buddha si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo [……] Il buddismo è in misura rilevante un sistema ateo […..] il cosiddetto nirvana, ovvero uno stato di perfetta indifferenza nei riguardi del mondo [….] Salvarsi vuol dire prima di tutto liberarsi dal male, rendendosi indifferenti verso il mondo che è fonte del male. In ciò culmina il processo spirituale” (Cfr. Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori 1994, 95 s.).
Negli anni sessanta/settanta del secolo ora trascorso, dopo una vampata ideale così intensa che “il sogno”, per chiunque ne avesse uno, pareva a portata di mano (e questa, fra molte, fu l’epoca più bella), d’un tratto la fatica antica del viver quotidiano emerse ineludibile e si abbattè come una tempesta di sabbia sugli slogan e sulla oramai stanca voglia di sognare la felicità dietro l’angolo. Fu una cocentissima delusione collettiva. Un implosione dalla cui successiva forza di espansione si partirono vari tipi di schegge. Lo svanire di un mondo di sogni ne generò altri, e questa volta non mancarono gli incubi.
Il fallimento dell’utopia rapidamente trasferì la frustrazione dal sociale al privato. Il mondo delle relazioni, non fornendo risposte fondamentali, deludendo crudelmente aspettative che sembravano più reali e legittime perché condivise da milioni di cuori, non conteneva né forniva più “senso”. Il senso andava cercato fuori dalle relazioni, dentro all’uomo. Ma non nel qui ed ora delle giornate quotidiane bensì in un altrove che le trasfigurasse, che facesse giustizia delle banalità e meschinità della vita immergendole in un bagno di mistero e di sacralità.
La nuova illusione era che fosse possibile partire lasciandosi a casa.
Tutto questo era realizzabile ad una sola condizione: che la meta del viaggio, del pellegrinaggio, fosse l’Oriente.
Grazie al lungo lavorio che, dall’inizio del secolo, per mille rivoli (Spengler, Hesse ecc.) aveva assecondato la convinzione che il Cercatore dovesse lasciare l’ormai avvizzito Occidente se voleva trovare il suo Graal, il fallimento del sogno di una generazione divenne, per alcuni, la conferma che l’errore, come novello peccato originale, fosse stato perpetrato irrimediabilmente dalle generazioni che li avevano preceduti e che si potesse porvi rimedio solo in quella terra favolosa dove la Conoscenza sgorgava abbondante e si faceva cogliere volentieri, quasi traboccasse ovunque.
Gli antesignani erano già tornati spargendo meraviglie, Kerouak aveva coperto con il mantello del satori, dell’illuminazione, la trasgressione e l’eccesso.
Il partire divenne un’urgenza. Partire era la risposta.
Alcuni non sono mai tornati: per non perdere l’illusione hanno cercato di fissarla per sempre con sostanze inebrianti a cui tutti, quasi tutti, prestavano tolleranza, se non simpatia. E quel sempre, quel fissare, sono diventati il sempre e la fissità della morte.
Per chi viaggiava con mezzi terrestri era subito percepibile e incombente l’enorme vastità e complessità dei territori e delle culture che iniziano alle porte del Bosforo.
Quell’enormità che un aereo apparentemente annulla in poche ore, sgomenta chi vi si immerga deciso a cercare e trovare.
Non stupisce allora che, col passare del tempo, molti abbiano perso l’orientamento rimanendo prigionieri di quell’Oriente in cui cercavano la libertà suprema. Catturati dalla loro privata liberazione. Come se tutta la ricchezza di quelle culture, in un lampo abbagliante, avesse fatto dimenticare ciò che ogni novizio sa riconoscere con semplicità: qualunque forma culturale può essere valida per esprimere l’Insegnamento del Buddha Shakyamuni, ma non è essa stessa quell’Insegnamento.
Ogni forma particolare di illuminazione (lascio il termine “illuminazione” perché così è nel testo da me scritto circa dieci anni orsono; ora nelle stesse circostanze uso “risveglio”. MYM) è una forma particolare di illusione. Certo, il mondo dell’illuminazione e quello dell’illusione non sono due, quindi, in realtà, ogni illuminazione nel suo esistere vive della stessa natura dell’illusione. Però sarebbe autolesionistico pensare che, per questo, illuminazione e illusione siano la stessa cosa o, addirittura, che l’illuminazione non esista dal momento che non vi è una formula che la rappresenti.
Occorre riconoscere con umiltà e realismo che, sebbene nei Paesi in cui lo Zen ha abitato e vissuto per secoli alcune forme abbiano un senso profondo, quel “senso” non è esportabile contenuto in quelle forme: il vestire tuniche o drappeggi di foggia cinese, tibetana, coreana o giapponese, il radersi i capelli, l’esercitarsi in complicati cerimoniali o in letture di testi in lingue ormai morte non ci avvicina (né ci allontana) di un passo dal vero insegnamento. Anzi è proprio quando crediamo che in questa o in quella forma particolare sia contenuto il buddismo, lo Zen: proprio allora formiamo l’ostruzione che ci impedisce di vedere quell’insegnamento.
Quando il partire si concretizzò nei primi itinerari, progetti, addii, lettere da posti sino a quel momento considerati irraggiungibili, ritorni improvvisi di occhi che pareva avessero visto l’invisibile, si produsse una sorta di effetto valanga che coinvolse le motivazioni più disparate.
In quel viaggio, per molti autentico archetipo del viaggio iniziatico, un gran numero di pellegrini si riversò nel mistero dell’Oriente.
Alcuni si imbatterono in maestri che li rassicurarono sul fatto che il buddismo era proprio ciò che loro immaginavano, volevano che fosse. Così, ben contenti dello scampato pericolo di doversi completamente spogliare della propria cara visuale privata, se ne accontentarono mitizzandoli per farli apparire a sé ed agli altri i più grandi possibile. Altri non si arresero di fronte alla realtà, non accettarono di riconoscere che la Via che conduce al superamento della sofferenza, alla redenzione, alla libertà assoluta passa proprio attraverso alla sofferenza senza rifiutarne neppure una briciola e scoprirono il buddismo in questa o quella pratica in questa o quella forma di cui fattisi esperti si fecero maestri. Ripetendo (in questo caso anche con un possibile calo di buona fede) in forma esotica, il tentativo di racchiudere lo Zen nella gabbietta del nostro zoo mentale per poterlo esibire, insegnare, con sicurezza di non sbagliare. Ignorando, o dimenticando, che proprio quando si chiude accuratamente la porta pensando finalmente di possederlo, abbiamo messo sotto chiave solo la pelle rinsecchita e polverosa del serpente. Che se la ride altrove. Magari proprio in quella pelle.
Il sogno di speranza che, come una molla, aveva proiettato tante “anime belle” in India ed in Nepal prima, in estremo Oriente poi, non prevedeva che occorresse faticare o soffrire più di tanto per ottenere ciò che, si sapeva, era sufficiente desiderare per averlo già ottenuto.
Per chi pensava di essere sfuggito alla croce di Cristo ed a quella più pesante caricataci sulle spalle, già nell’infanzia, dal penitenzialismo ecclesiale, una nuova Via significava soprattutto una via moderna, cioè facile. Ne nacque una via all’Oriente percorsa da eletti che si rassicuravano l’un l’altro perché, essendoci nulla da imparare, sapevano già tutto.
Gli orientali non furono da meno. Pochi religiosi resistettero alla lusinga di quel vero e proprio fiume di discepoli che si rivolgevano a loro con ammirazione piena di aspettative e che provenivano proprio da quel mondo che sino a quel momento li aveva umiliati, conquistati, battuti con la forza dell’economia e degli eserciti, imponendo poi la propria cultura e la propria religione. Erano i figli dei vincitori che accettavano di porsi sotto la guida dei vinti.
In molti casi, il denaro, il miraggio della fama e di un reale potere mondano, ingigantito dai media, fecero il resto.
In Giappone, per molto tempo, l’apparenza prestante o scaltra o incomprensibile o dissacrante del maestro del tempio, persino la sua potenza sessuale, furono il metro per valutare, tra noi occidentali, il suo grado di illuminazione:
“…Molti anni addietro, persone provenienti da tutto il mondo si ritrovarono a Kyôto per praticare il Buddismo. Alcuni si recavano al tempio della Pace e della Tranquillità spostandosi poi al tempio della Grande Virtù visitando poi il tempio della Sottile Conoscenza. Le conversazioni fra di noi erano: -Sono stato a colloquio con l’abate del tempio Del Niente Affatto: mangia la carne e sgrida i monaci, non può essere un illuminato! – Ti capisco, anche quello del tempio del Grande Sbadiglio non è un granché: ha cominciato subito a farmi domande inutili come: perché vuoi fare zazen? Perché hai lasciato Cristo? Certamente non è un vero Buddha. Invece, quel maestro, giù al tempio della Santa Rarefazione, deve proprio essere un illuminato. Anche se non sa l’inglese ha capito tutto quello che gli ho detto e mi ha offerto del macha (the in polvere, usato nella cerimonia del the) eccezionale-. Chiamavamo questo modo di fare “saltellare tra i templi”…….”. (Daitsu Tom Wright, inedito comunicato dall’autore).
L’epoca di cui parla il professor Wright è quella degli ultimi anni sessanta, inizio settanta.
Da allora molto tempo è passato ma pare che il buddismo occidentale sia la parte di questo mondo che più ha bisogno del buddismo per uscire da un malinteso, oramai epocale, così radicato da non riconoscersi più, come chi in sogno tema di guardarsi allo specchio perché questo lo farebbe scomparire. Ed invece proprio in quello scomparire, che non è estinguersi, in quell’esserci senza parere e senza un assetto fisso è quella autentica proposta di libertà chiamata Zen.

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