Questo brano è tratto dal libro Intelligenza volse a Settentrione, di M.Y.Marassi.

In India, tanto tanto tempo fa, in un’epoca turbolenta e confusa in cui tutti sapevano le verità ed a nessuno importava cercarle, si convinsero della necessità di misurare, con precisione, la durata di un kalpa (1).

Qualcuno degli Anziani (2), a dire il vero, aveva provato a ricordare che, quando era stato istituito, il kalpa era una misura simbolica, per voler significare un’enorme quantità di tempo. Certo non l’eternità, ma, comunque, un bel po’ un bel po’.

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Ciò nonostante quelli della Maggioranza (3) rumoreggiavano: che era ora di finirla con queste storie esoteriche, che l’avvicendarsi di quattrocento sistemi filosofico religiosi non aveva portato un sol posto di lavoro, che occorrevano certezze per gli investimenti. Che i turisti volevano un servizio puntuale, che c’erano le prenotazioni per l’inizio del Kaliyuga (4) e le agenzie volevano conoscere il momento esatto, in modo da vendere il pacchetto vip con la garanzia di poter essere i primi, per via del fuso orario, a vederne l’inizio. Uno dei più infervorati, un Sadhu (5) che proveniva dalle coste del levante, tale Aswaulla Varaha (6), rigoroso asceta, famoso per la sua musoneria (l’unica frase che aveva detto negli ultimi dieci anni, nel suo dialetto gutturale, era: nudiguninte magunfiu) (7) agitava gli animi mostrando depliant di altre zone dove, alle ricche e boccalone tribù brianzole e bergamasche (8) si offrivano soggiorni completi non solo di data d’inizio del Kaliyuga ma, persino, con possibilità di iscriversi e partecipare allo sfiziosissimo gioco del Lila (9).

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Non fu possibile resistere oltre. L’amministrazione delle dieci direzioni, messa alle strette dal pressing a tutto campo della potentissima lobby della Trimurti (10), convocò i più famosi matematici ed astrofisici. Si contarono e ricontarono i granelli di sabbia del Gange (11), si misurò l’altezza del Monte Sumeru (12), fu chiesto al Bodhisattva quanti esseri intendesse condurre al nirvana (13), Vimalakirti calcolò quante dee e quanti dei, completi di baldacchini, servitori al seguito e discepoli, potevano entrare in casa sua (14). Infine i dati furono omogeneizzati, trattati, sottoposti allo studio della commissione ma fu un fallimento. Nagarjuna (15), noto polemista nulla facente, disse che era senz’altro uno zero totale, Mahakasyapa (16), sornione, sorrise con aria serafica, Subhuti (17), temendo dessero, di nuovo, la colpa a lui, si nascose a casa di Avici (18).

Ad un tratto, però, un principe (19), un nobile decaduto, un tipo sveglio dall’aria bon vivant, rientrando come sempre all’alba, al chiarore della stella del mattino ebbe un’idea: “Chiediamo aiuto alle Donne Celestiali” disse. “Io stesso -qui lo dico e qui lo nego- ne ho tratto gioia ineffabile. Chissà che, pur non essendo di questo mondo, non ci possano essere d’aiuto”.

Fu chiamato Ganesh (20), che, per gioventù ed esperienza, era il più adatto a portare l’ambasciata; gli si spiegò, con severità, che doveva incontrare quegli esseri sublimi solo per chiedere il loro aiuto e che non doveva, invece, approfittarne per giocare con loro a Tantra Tantra (21).

Ganesh, uomo di mondo e savoir faire, passò prima da Shankara (22) per procurarsi una canna e non presentarsi a mani vuote, poi inviò sulla Via Lattea lo Scimmiotto (23), con tre canestri (24) di fiori di loto (25) , ad invitare la più bella delle Donne Celestiali. Nel primo canestro, sapientemente occhieggiante tra le foglie di Pippala (26), mise un biglietto in cui invitava la bella ad un misterioso convegno alla Vinaya (27), il locale più in tra gli Atman (28) del bel mondo.

All’ora stabilita, annunciata da un leggero profumo di ligustro, la bella Vipassana (29) apparve, sfarfallando le lunghe ciglia sugli occhi color consapevolezza (30).

Ora, si sa, le Donne Celestiali son vestite di veli leggerissimi (le cui trasparenze è bene non fantasiare vista la santità della “cosa”) e, per farsi opportunamente desiderare, si mostrano, per pochi attimi, una sola volta ogni mille anni.

La bella, ascoltata con attenzione la richiesta d’aiuto da parte degli abitanti del mondo, promise di pensarci e poi disparve, in una nuvola di veli color del non c’è più.

Lasciando dietro sé un tenue profumo di fiori di tiglio.

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Tornata al suo palazzo, la bella Vipassana, assieme alle sorelle ed alle amiche, calcolò e riprovò sino a che bakti (31) e ribakti non ottenne lo stesso risultato per varie volte e fu, così, tranquilla di aver trovato un sistema sicuro.

Trascorsi mille anni, venuto il tempo di mostrarsi nuovamente agli sguardi di dei e mortali, avvisati gli abitanti del mondo di realizzare i preparativi più opportuni per la bisogna, la Donna Celestiale salì sul Piccolo Veicolo (32), e, fatta girar la Ruota (33), si mise in viaggio verso la terra.

Giunta in un soffio al termine della grande Marga (34), al confine dell’inizio senza inizio, proprio in mezzo all’eterna pianura che sorge dopo il passato ed arriva fin quasi al futuro, la ruota si arrestò un istante nel silenzio definitivo. La nascita coincise con la morte, il dolore con il risveglio, tutti gli ieri entrarono in tutti i domani e la Bella, vaporosa e fresca, profumata di gelsomino, apparve alle moltitudini che la attendevano tra il brusio, il caldo, le mosche ed il puzzo dei corpi sudati.

Il tempo di un pensiero vuoto ed ella subito fluttuò nell’aria che, abbagliata e stupita da tanta bellezza, rifletteva festante, di qua e di là, i colori dell’arcobaleno.

Allontanandosi, mollemente adagiata sul voluttuoso raggio purpureo di un Dharmakaya (35), la Donna Celestiale sfiorò, con i veli impalpabili della lunga manica della veste evanescente, l’enorme cubo di granito alto sino al cielo che, per suo ordine, troneggiava in mezzo alla pianura di ogni lato.

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Volando via la bella parlò con la voce dal suono che colora le menti (36):

“Ogni mille anni qui verrò ed ogni volta, prometto, con il lembo della manica il grande cubo sfiorerò.

Sino a che il tutto sia consumato.

Così finiscono i Kalpa, così è il tempo che viene, così è il tempo che sia.”

Disparve, mentre le sue parole scintillanti scendevano a cascata, multicolori, tintinnanti, portate dal vento.

La turba esultò: “Finalmente un punto fermo su cui posare i Cakra (37)!” Si dissero i più.

Ma dal fondo del campo di meriti, un vecchio Avatara (38), con un sandalo in mano (39), si fece largo tra la folla che a poco a poco diradava nel buio dell’abisso e si avvicinò al blocco di pietra grande come cento montagne. Lo toccò con la mano nodosa dalle verdi vene sporgenti e scosse lentamente il capo.

Secondo finale:

Ma dal fondo del campo di meriti, un vecchio Avatara, con un sandalo in mano, si fece largo tra la folla che a poco a poco diradava nel buio del non Veda (40) e si avvicinò al blocco di pietra, grande come cento montagne. Lo toccò con la mano nodosa dalle verdi vene sporgenti, scosse lentamente il capo e salmodiò l’antico Raga (41):

imepannessci,

imepantūttinessci,

masàli, masàli,

enughepènsuciū (42)

Più o meno, andò così che il Kalpa fu finalmente misurato ed oggi ne custodiamo l’inizio e la fine come pure tutti gli altri lati.

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